«Nell’era della globalizzazione non ci possiamo nascondere dietro il dito della diversità». Con queste parole la dottoressa Luisa Barbaro, responsabile dell’unità operativa dei consultori familiari dell’area metropolitana dello Jonio e dirigente del consultorio di Via del Vespro dell’Asp 5 di Messina, spiega perché dobbiamo parlarne. Anche se sembra un tema lontano. Anche se fa schifo solo immaginare cosa può provare una donna che subisce la mutilazione genitale.
È un fenomeno complesso, quello dell’infibulazione. Non si può spiegare appieno con il fanatismo religioso, né con il desiderio degli uomini di sottomettere le donne. E, soprattutto, non si può relegare al mondo musulmano. «Le mutilazioni genitali sono una pratica tradizionale e consuetudinaria molto diffusa nell’Africa sub-sahariana in comunità che hanno appartenenze religiose molto diverse. Normalmente noi le identifichiamo come pratiche islamiche ma non sono solo islamiche, anche se certamente questa religione, al pari di altre, ha contribuito alla loro non cancellazione. L’ha avallata, pur non raccomandandola» spiega Deborah Scolart, ricercatore all’Università di Tor Vergata e esperta di diritto musulmano.
Ma cosa è esattamente l’infibulazione? «Quando l’operazione è ben riuscita viene lasciato un piccolo foro per il transito del sangue mestruale e dell’urina. Questo accade solitamente tra i 3 e i 7 anni, sicuramente prima che la bambina raggiunga la maturità sessuale e la prima mestruazione» racconta la dottoressa Scolart. In termini medici parliamo della asportazione, distruzione, eliminazione degli organi genitali femminili esterni. Come spiega la dottoressa Barbaro: «Si va dall’asportazione del clitoride a quella della maggior parte dei tessuti, i cui lembi rimanenti vengono poi ricuciti con spine di acacia attraverso cui viene fatto passare un filo. È una cosa orribile e dolorosissima».
I danni all’organismo femminile sono irrimediabili. Nei casi meno gravi si ottiene “solo” la perdita della possibilità da parte della donna – ma anche dell’uomo che si unisce a lei – di provare piacere nell’atto sessuale. E quando l’operazione, condotta in modo artigianale, senza anestesia e senza garanzie igieniche, non riesce alla perfezione «capita che alcune poi soffrano di accumulo di sangue mestruale, con tutte le conseguenze che ne derivano. Se non muoiono di setticemia hanno comunque dei problemi sanitari gravissimi – racconta la dottoressa Scolart».
Nonostante queste atroci sofferenze, l’infibulazione è molto diffusa e radicata tra gli uomini come tra le stesse donne, e in alcune culture africane si dice che la donna deve diventare liscia come una tavola: «La pratica è talmente diffusa che le donne ritengono il loro organo genitale naturale disgustoso e ripugnante, culturalmente terribile in tutte le sue parti e manifestazioni visive o olfattive. Una donna infibulata è pura, onesta, che può essere sposata» ci dice la dottoressa Scolart.
Ma le ragioni per cui si fa sono tante, non solo religiose. Ogni comunità obbedisce alle proprie regole e dà una spiegazione diversa al perché una donna infibulata sia pura e onesta. È un problema culturale, secondo la ricercatrice: «Naturalmente c’è una dimensione di controllo della sessualità femminile – dice – perché privando la donna del piacere sessuale si crede di poterne controllare l’istinto di fuga o il desiderio di mescolarsi con gli uomini. Secondo me questo è strettamente legato alla tutela dell’onore, cioè il maschio vede nel comportamento anche sessuale della donna una minaccia al proprio onore. Però è anche vero che c’è una fortissima partecipazione da parte delle donne, sono loro che promuovono questa pratica e lo fanno perché la ragazza non infibulata ha lo stigma della ragazza di poca morale e di malaffare. Tale è la forza sociale dell’infibulazione che alcune donne – dopo aver partorito con difficoltà e dolori tremendi – chiedono di essere richiuse. Perché altrimenti la loro identità di donna è compromessa».
La soluzione per superare l’infibulazione c’è. Questa pratica può essere ancora spacciata come islamica anche se le fonti musulmane non ne parlano, se non nelle forme più lievi, perché «la cultura religiosa è trasmessa da uomini ignoranti, che a loro volta l’hanno appresa da altri uomini ignoranti, che si rifanno a quanto per secoli è stato detto. E per secoli si è tramandata la credenza che la buona musulmana dev’essere infibulata. O si ha la possibilità di leggere e studiare veramente il Corano e di capire che non è vero, oppure la pratica non può essere superata» è la conclusione della dottoressa Scolart. Per questo bisogna parlarne. Perché non è un tema lontano.