Frammenti di vita vissuta si intrecciano ad eventi di cronaca nei racconti di Letizia Battaglia, nota fotoreporter palermitana. La donna ha collaborato per anni al giornale L’Ora, immortalando protagonisti di fatti delittuosi, vittime di cruenti omicidi che per anni si sono susseguiti senza sosta.
Erano gli anni di piombo: la mafia, decisa a vincere ogni opposizione, era prepotentemente uscita allo scoperto. Giorno dopo giorno uccisioni e sparatorie deturpavano il volto di una città stanca, indebolita e sempre più vulnerabile.
Letizia si è trovata a dover documentare l’atroce sorte di Palermo e le sue istantanee valgono come preziosa ed irripetibile testimonianza. Talvolta le parole non sono abbastanza: nulla può sostituire l’immediatezza di un immagine e la fotografa sembra saperlo bene.
Ancora dedita al suo lavoro, mai stanca e fiera dei suoi scatti, Letizia Battaglia ci ha accolto nel suo centralissimo appartamento palermitano. In un luminoso ed ampio salone, la donna ci parla di ciò che è stato, lasciandosi sfuggire non di rado qualche malinconico sorriso.
Lei ha trascorso molto tempo lontano dalla sua città. Cosa l’ha spinta, ancora giovane e madre di ben tre figlie, ad abbandonare Milano e far ritorno a Palermo?
“Palermo non si dimentica. Io ero andata via per trovare lavoro, per rendermi indipendente. Qui non c’era nulla per me, così sono stata costretta ad andare altrove. Quando però mi si è presentata l’occasione di tornare ed il giornale L’Ora si è offerto di accogliermi, non ho avuto esitazioni.”
Quando è giunta a Palermo era già decisa ad occuparsi di questioni legate alle lotte di mafia?
“Io ero convinta di lavorare per un quotidiano, alla mafia non ci pensavo affatto. Ancora il fenomeno non aveva una grande risonanza. Certo, sapevamo che in Sicilia si erano verificati omicidi di stampo mafioso, ma non se ne parlava molto. Ero fiera di essere una fotoreporter, ma come avrei potuto esserlo a Milano, a Napoli o a Parigi. Ero lì al giornale e Palermo era teatro di fatti violentissimi che io avevo il dovere di documentare. All’inizio non fu né una passione né una missione, si trattava semplicemente di lavoro.”
E in seguito lo è diventata?
“Assolutamente sì! Certo, la mia missione non era quella di fotografare decine di morti, ma stare vicino ai più deboli, denunciare l’abiezione a cui la mafia aveva costretto il popolo palermitano. Ho preso coscienza pian piano di ciò che stava accadendo in città, della portata del problema: il clan dei corleonesi aveva preso il sopravvento e non accettava opposizioni di nessun tipo. Vennero uccisi giudici, poliziotti, cittadini capitati lì per caso, la cosa non poteva essere ignorata!”
Qual è stata la prima istantanea con cui ha denunciato le crudeltà degli anni di piombo?
“Innanzitutto occorre sfatare questo mito: io non ho scattato le mie fotografie con l’intento di denunciare l’operato dei mafiosi: io ho immortalato vittime di diversi omicidi, carcerati, imputati, processi. La vera denuncia è arrivata dopo: ho scelto alcune immagini, le ho messe insieme ed esposte. La mostra è stata proprio a Corleone, dove purtroppo abbiamo incontrato qualche difficoltà. A quanto pare ciò che avevo da mostrare non era gradito ai corleonesi, che non hanno tardato ad abbandonare la piazza subito dopo aver dato uno sguardo ai miei soggetti.”
Cosa ricorda Letizia Battaglia di quegli anni?
“C’era un’atmosfera pesante. Era arrivata la droga già negli anni ’60: prima l’eroina, poi la cocaina e il racket era naturalmente in mano alle associazioni mafiose. Anche i borghesi ne facevano uso. Ricordo ricevimenti in cui gli stupefacenti venivano offerti in tazzine d’argento!
La mafia aveva corrotto buona parte della società: i più poveri riuscivano ad ottenere un lavoro, qualche soldo in più, mentre i benestanti ottenevano la possibilità di accrescere il loro prestigio, il loro potere. Persino magistrati e poliziotti scendevano a compromessi e nessuno di noi poteva considerarsi al sicuro. Eravamo preoccupatissimi: quando è morto Boris Giuliano, il capo della squadra mobile, siamo rimasti attoniti. Non potevamo crederci. È stato ucciso addirittura un bimbo, di soli dieci anni: il suo corpicino giaceva lì, senza vita nei pressi di un distributore di benzina. E tutto perché aveva visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere.”
La donna si prende il viso fra le mani. Sembra stanca, su di lei grava il peso di insopportabili ricordi. Pochi istanti dopo però alza lo sguardo con impazienza, in attesa di un’altra domanda. Probabilmente vorrebbe dimenticare quel bambino, fuggire dal ricordo di quei giorni bui.
“Alla luce di tutto questo, cosa pensava la sua famiglia d’origine del suo lavoro? E le sue figlie?”
“I miei genitori mi raccomandavano sempre di stare attenta, di badare a ciò che facevo. Erano in ansia, d’altronde era normale che lo fossero. Le mie figlie hanno sofferto. Per loro non ero presente come avrebbero voluto, soprattutto per la più piccola, Patrizia. Quando ho iniziato a lavorare per il giornale aveva quattordici anni, la sua adolescenza era agli inizi e lei avrebbe voluto che le dedicassi più tempo. Ma è forse una colpa voler crescere professionalmente? Voler essere sociale più che privata?”
Pensa che il suo operato, la sua militanza, le sue testimonianze abbiano dato i loro frutti?
“Niente affatto. Sono stata una fra i portavoce di quella Palermo che non ci sta, che non vuole scendere a compromessi, ma la mafia è ancora molto forte. Deve essere lo Stato ad intervenire, la società civile da sola non può fare nulla. Se lo Stato non si prodiga per arginare il fenomeno, e sinora non l’ha fatto, le cose non cambieranno mai. La mafia ha cambiato forma: adesso investe il suo denaro in affari internazionali, affida il suo patrimonio ai ben noti paradisi fiscali, ha impoverito ulteriormente l’Italia. Chissà quando il governo si deciderà a fare sul serio. Forse non ne ha l’intenzione, non lo so.”
Per un breve periodo della sua vita lei ha lasciato Palermo. Come mai? Voleva gettare la spugna?
“Dopo l’omicidio di Falcone e Borsellino, io resistetti. Uccisero Don Pino Puglisi e io resistetti. Poi ci furono le elezioni e l’intera popolazione votò per Berlusconi. Tutti i deputati che la Sicilia destinò a Roma erano affiliati a Berlusconi. A quel punto mi demoralizzai molto: avevo perduto fiducia nella possibilità che qualcosa potesse cambiare.”
Come pensa che si evolverà la situazione?
“Il destino della Sicilia è in mano ai giovani. Solo loro possono costruirsi un futuro diverso dal nostro presente. Cos’altro posso fare io? Non mi resta che continuare a dire ciò che penso, ma il vero potere è nel voto. Bisogna scegliere persone oneste, che abbiano a cuore il bene della popolazione. Qui non si parla di Destra o di Sinistra, ma di rettitudine, di integrità. È un periodo di grande tristezza sociale, un lungo periodo che spero si concluda, prima o poi.”