Come un bambino vive una catastrofe come quella di Giampilieri dell’ottobre scorso? Cosa sente dentro di sé? Quali emozioni e sentimenti caratterizzano la vita psichica di un bambino che ha assistito ad un evento disastroso ?
Avevo già conosciuto bambini esposti a situazioni traumatiche legate a disastri naturali sia nel 2002 a seguito del terremoto a Santa Venerina sia qualche mese prima nel campo di Torniparte in Abruzzo. Ma per la prima volta giungevo in una fase di prima emergenza, a poche ore dal disastro. Il mio intervento in qualità di Psicologo dell’emergenza, componente della Task force dell’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana, si collocava, infatti, a distanza di quarantottore dal disastro idrogeologico dell’1 ottobre 2009. Da una preliminare ed indispensabile mappatura dei bisogni psicologici della popolazione io e la collega Maria Parisi rilevammo una “emergenza nell’emergenza” costituita dalla popolazione infantile che necessitava di opportuni e specializzati interventi di sostegno psicologico.
Come ampiamente descritti negli studi di psicotraumatologia.(Bowlby J.,1983; Castelli C., Sbattella F., 2003; Bettelheim B., 1979; Joshi P. T., O’ Donnel, D. A. 2003), anche i bambini del territorio compreso fra Giampileri e Scaletta Zanclea in cui abbiamo operato, esprimevano il loro disagio attraverso modalità piuttosto eterogenee.
Alcuni bambini mostravano la necessità di riesperire la catastrofe: ho osservato bambini desiderosi di raccontare più volte, fin nei minimi dettagli, ciò che era accaduto quella sera, l’evento, la pioggia incessante e copiosa ‘diversa dalle altre piogge’, il rumore improvviso, quel boato che ancora riecheggiava dentro, l’elenco di cosa avevano perduto e cosa erano riusciti a mettere in salvo, la narrazione di cosa avevano provato, l’angoscia di non rivedere i familiari, talvolta, però, anche il loro coraggio, l’essere stati dei ‘piccoli eroi’, capaci di reggere e contenere la disperazione degli adulti. A Scaletta un bambino ha ripercorso quei momenti chiedendomi espressamente di poterli rievocare nel luogo esatto in cui si trovava, lungo il greto del torrente, consegnandomi generosamente la sua incontenibile esperienza emotiva nell’intensità originale dei primissimi giorni.
Analogamente i disegni dei bambini, i loro giochi spontanei esprimevano, con un linguaggio diverso, immediato, gli stessi contenuti, ricchi di riferimenti e di segni classici dell’ angoscia di morte che permeava l’aria del messinese in quei giorni:
In altri casi, invece, i genitori riferivano, preoccupati, difficoltà nell’addormentamento, incubi, risvegli notturni, pensieri intrusivi, angoscia nel ricordare la sera del primo ottobre.
Altri bambini mostravano segni di evitamento: bambini che non mostravano alcuna voglia di giocare, che avevano perso qualsiasi interesse verso le loro abituali attività, apatici, scontrosi.
Molti bambini, ma anche i genitori, manifestavano paura di separarsi, emergeva una ricerca costante della vicinanza fisica alle figure familiari, care.
In una famiglia in cui vi era stata la perdita di un familiare, il cui cadavere non era stato ancora ritrovato, la tendenza a mistificare si riscontrava nei bambini, che evitavano accuratamente anche di pronunciare il nome del defunto, specie in presenza dei cari. Questo indica quanto la reazione della famiglia rappresenti un fattore decisivo per la positività con cui gli individui fronteggiano il trauma e lo superano. I bambini valutano gli eventi percepiti appoggiandosi agli adulti di riferimento, che funzionano come dei ‘termometri emotivi’, e alla loro capacità di offrire un’interpretazione degli eventi.
I bambini nelle situazioni traumatiche rischiano di perdere la fiducia nella sicurezza del mondo. Nel suo lavoro sulla ‘sindrome da stress post-traumatico’, R. Galante (1996) sostiene che i bambini perdono fiducia negli adulti perché essi non li hanno preparati alla possibilità di una catastrofe che distrugge tutto.. Dice ancora la Galante ‘ i bambini pensano che gli adulti, specie i propri genitori, siano onnipotenti. Se vedono che così non è, in loro si crea un vuoto: essi perdono fiducia nella visione globale della vita che avevano dato loro i genitori. …”
La letteratura, specie statunitense e canadese, sottolinea che i primi sei mesi successivi ad un evento traumatico siano fondamentali e critici per l’elaborazione del trauma e la ripresa della normalità, specie nei soggetti in età evolutiva che rappresentano, insieme agli anziani, fasce ‘deboli’ , vulnerabili, della popolazione.
Dopo la mobilitazione iniziale, l’intervento delle diverse agenzie ed organizzazioni per la fase di emergenza, superata la c.d. fase di ‘luna di miele’, attualmente chi si occupa dei bambini colpiti da una simile esperienza?
L’attenzione solitamente è rivolta alla ricostruzione ‘materiale’ di ciò che una catastrofe distrugge: le strade, le case, gli edifici pubblici, si cerca di consolidare, di mettere in sicurezza, di ripristinare quella quotidianità bruscamente interrotta da tragedie simili.
Vorrei sottolineare che analoghe e parimenti importanti operazioni di ‘ricostruzione’, di ‘consolidamento’, di ‘ridefinizione’ si avviano spontaneamente, in maniera invisibile, nell’anima della popolazione, all’interno di ciascun cittadino che cerca di rimarginare le inevitabili ferite, affidando al ‘tempo che passa’ il senso di impotenza e di disperazione che, spesso, incombe e lo assale.
La comunità, il senso di appartenenza ad essa, il recupero delle tradizioni e dei riti offre, certamente, una rete di sostegno naturale ai bisogni psicologici di una popolazione colpita così duramente. Accanto ad essa, tuttavia, sarebbe auspicabile attuare progetti di intervento e di assistenza psicologica alla popolazione nel territorio per favorire l’elaborazione dell’evento catastrofico e dare ‘voce al dolore inespresso’.