Appartengo a quella categoria di persone che si trovò sull’autostrada Palermo-Mazara del Vallo in prossimità dello svincolo per Capaci, quindici minuti dopo l’esplosione che spazzò via Falcone, la moglie e la sua scorta. Quel tritolo cosparse di sangue non solo la strada, ma anche le nostre coscienze di cittadini, sancendo definitivamente la nostra condizione di sudditi di una simil-democrazia repubblicana fondata non sul lavoro, ma sul profitto e sul capitalismo. Avevo venticinque anni nel maggio del 1992, era un sabato di un’estate ormai prossima e con altre amiche ci apprestavamo a trascorrere uno spensierato fine settimana in compagnia di altri amici che stavamo per raggiungere pochi chilometri dopo Capaci. Per questo eravamo su quel maledetto percorso. Quando passammo sul ponte che sovrasta l’autostrada non potevamo credere ai nostri occhi: la strada non esisteva più. Al suo posto c’era solo una montagna di detriti. Le risa e i canti spensierati di tre giovani donne divennero silenzioso omaggio a un evento che percepimmo subito nella sua enorme gravità. Credo che tutte pensammo a Falcone, ma non ce lo siamo dette: il pensiero rifiutava di farsi parola. Solo sulla strada di ritorno, dopo esserci ricongiunte con il resto dei nostri amici, siamo riusciti a sapere cosa fosse accaduto, grazie a un notiziario che diede voce alle nostre paure. Imbottigliati in un traffico che paralizzò ogni via di accesso a Palermo, accanto a noi c’erano giovani che esultavano fuori dai finestrini, strombazzando chiassosamente i clacson delle loro auto. Provammo vergogna. Noi. Palermo morì quel giorno. Hanno vinto loro, i mafiosi e i loro fiancheggiatori. Mettiamocelo in testa. In barba a qualunque indignazione, nonostante i movimenti spontanei di cittadini onesti e stanchi di sopportare. Nonostante e grazie alla classe politica. Ne è prova quanto emerso dalle intercettazioni che coinvolgono capitan Miccoli e le sue ambigue frequentazioni in odor di mafia. Calcio e malaffare, dov’è la novità? Lo aveva capito da tempo, con diabolica lungimiranza, il nostro “cavaliere” che attraverso il calcio si manovra il basso ventre di questo Paese, si pilotano gli istinti più rozzi e viscerali attraverso la “tifoseria” e la costruzione ad hoc di falsi idoli frutto di un abile lavoro mediatico. “E per distrarli dalle cose serie ogni domenica li mandava in ferie, tutti allo stadio a farli divertire” recitava una canzone di Bennato di qualche anno fa. L’Italia non è cambiata molto negli ultimi decenni. E’, semmai, peggiorata. A cominciare da quando idolatrava un tossicodipendente miliardario ed evasore fiscale che risponde al nome di Maradona. Anche Palermo scopre di avere il suo falso mito e si chiama Fabrizio Miccoli. Chi è Miccoli? Uno che canta in macchina insieme al figlio di un mafioso di quel “fango” di Falcone. Per me si dovrebbe ricordare solo per questo. Ma questa città (e questo Paese) non è molto diversa dal suo capitano calcistico. Se si prendesse coscienza che dietro una partita di calcio si muovono fiumi in piena di denaro (quasi sempre sporco) in grado di risollevare l’economia agonizzante di questo paese; se si comprendesse che mentre questi undici rozzi imbecilli, che per la maggior parte sono di un’ignoranza scandalosa, stanno chiusi dentro una gabbia di campo guadagnando cifre da capogiro grazie agli abbonamenti, ai diritti televisivi, agli spot pubblicitari, alle partite truccate pagate con i soldi dei tifosi (che fino a prova contraria sono anch’essi cittadini di questa repubblica, anche se a loro insaputa). Mentre tutto questo denaro viene sprecato con la partecipazione complice dei tifosi, intanto la povertà dilaga a tal punto da spingere al suicidio uomini privati della loro dignità di esseri umani, magari con la Costituzione in mano, aperta sul suo articolo primo “L’Italia è una repubblica democratica (af)fondata sul lavoro”. Mentre assistiamo inermi alla speranza morta ammazzata dentro le nostre scuole, dentro le università che sono diventate strumenti di selezione di massa, sempre più appannaggio per giovani ricchi e negati ai poveri; mentre i nostri giovani non riescono più a immaginare il loro futuro stretti da un’assenza di prospettive che ha ucciso il loro domani. Se si comprendessero tutti questi risvolti che hanno una ricaduta sulla qualità delle nostre vite, si pianterebbe di alimentare il circo mediatico in cui è stato trasformato il calcio italiano. Si smetterebbe di mettere a ferro e fuoco le nostre città in occasione dei derby, trasformandole in campi di battaglia degni di un’autentica guerriglia. La si smetterebbe di vandalizzare le nostre strade, le nostre piazze, per contestare questa o quella decisione arbitrale come fosse la sola ragione per una vita più giusta, umana. Non si ucciderebbero i poliziotti per un banale scontro tra tifoserie opposte, bandendo una buona volta questo show volgare che ha il volto di un imprenditore friulano calato in Sicilia a far soldi attraverso il calcio. A un imprenditore non frega niente dei valori che ogni sport di squadra reca con sè: la formazione e la coesione di un gruppo, la solidarietà, la generosità che annulla il protagonismo individuale trasformando la vittoria di uno in vittoria di tutti, nessuno escluso. Zamparini è solo un imprenditore capitalista a cui interessa il profitto, non i valori dello sport. E’ per questo che cambia allenatore con la stessa frequenza delle mutande. Lui ragiona da imprenditore, non da amante dello sport e del calcio: partita persa uguale denaro perso. Mica si può permettere di aspettare la formazione e la crescita di una squadra; non può concedere il tempo che ci vuole affinchè si instauri la necessaria complicità fra compagni, dando la possibilità alla squadra di sperimentare le potenzialità e i limiti reciproci, facendo propri lo stile di un allenatore, le sue aspettative, le tattiche e le tecniche adottate. Tutto questo non lo si costruisce nel giro di novanta minuti: è un’operazione che richiede tempo, l’unico lievito che dà risultati, che porta alla vittoria coronata dal punteggio. Lo sapeva benissimo padre Puglisi, che ha individuato nel pallone l’elemento aggregante in grado di sottrarre manovalanza a basso costo ai fratelli Graviano e pagando, per questo, con la vita. Mi piacerebbe vedere tutta questa gente che protesta per una partita o per la vendita di un giocatore, farlo per riprendersi i propri diritti di lavoratori e la dignità di persone, di cittadini liberi. Invece, in questo continuo abbassare l’asticella dei diritti, strappati col sangue e col sudore dai nostri padri e consegnati a noi, davvero indegni custodi, anziché ribellarci, ci adattiamo rassegnati. In Turchia hanno occupato un parco che il governo di Erdogan vuole distruggere per far largo alla replica di una caserma ottomana. In Brasile, nazione di grandi tradizioni calcistiche, hanno messo a soqquadro un paese per l’aumento del biglietto del bus e sotterrato sotto la sabbia di Copacabana centinaia di palloni, in segno di protesta. Palermo è la città in cui viaggiare coi mezzi pubblici ha il costo più alto d’Italia e con un’efficienza pari a zero. Palermo ha assistito indifferente al suo famoso sacco quando il cemento ha preso il posto di ville liberty, di parchi e di giardini lussureggianti di cui apprendiamo grazie alla testimonianza di un sognatore tedesco che si chiamava Goethe o qualcosa del genere, se non ricordo male. Il quale doveva soffrire di allucinazioni, perchè la città che ci ha consegnato la mafia in nome del Dio Denaro (per pochi) grazie all’azione scellerata e disinvolta di politici quali Salvo Lima e Vito Ciancimino, suo sodale assessore ai lavori pubblici, è una città anonima e volgare (per tutti). Palermo assalta lo stadio per la vendita di un giocatore. Palermo si scontra con l’eterna rivale Catania per un derby, e un poliziotto ci rimette la vita. Palermo rimane indifferente quando un dipendente della Gesip timbra il cartellino e poi corre a fare il marinaio per la barca personale del sindaco Cammarata, offerta a nolo in nero. Palermo viene incendiata dagli operai Gesip sull’orlo del licenziamento, ma una buona parte di loro ha ottenuto quel posto di lavoro grazie al favore di qualche potente. Palermo è una delle città più sporche d’Italia in cui molti suoi cittadini vivono con fastidio e insofferenza la raccolta differenziata ancora a macchia di leopardo, ma continua a passeggiare con indifferenza fra le vie del suo “salotto buono” fra cumuli di spazzatura maleodorante. Palermo fa il bagno a Mondello lasciando al posto della sabbia una discarica da consegnare al mare. Posta celere, per favore. Palermo ha per mito Miccoli, strapagato giocatore di calcio, innalzandolo impropriamente al ruolo di eroe salvatore della patria il quale infanga la memoria di un servitore dello Stato, entità a lui sconosciuta. Dunque facciamo due conti: il Brasile protesta per il costo del tram, la Turchia per difendere un parco. Noi, invece, ci siamo abituati a tutto. Siamo proprio un Belpaese. (Serafina Ignoto)
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