Non sono anziani, non sono giovani, il mondo assetato di standardizzazione e normalità li classificherebbe immediatamente: “coppia di mezza età”. Consumano i preliminari di una cena, il rito voodoo per combattere il silenzio viene compiuto con qualche parola che fora il buio. Le frasi di circostanza che si trascinano stanche come un vecchio gatto persiano imbolsito da vita da termosifone appiccicato.
– hai preso il pane fresco? –
– si, lo affetto?-
– non tutto, lasciamene qualche fetta per fare colazione domani –
Lui vorrebbe innescare l’ennesimo battibecco sterile ma vivacizzante, sull’abitudine della moglie ormai radicata peggio dell’edera di fare colazione col pane del giorno prima pucciato nel caffellatte, non ha molta voglia, lo sguardo di sfida da lei non viene raccolto, lui si rimette ad affettare.
Il trattato di pace della guerriglia coniugale scampata viene firmato da lei.
– vuoi il parmigiano insieme al prosciutto? –
– no, ne prendo un pezzo dopo, senza pane, me lo mangio con un bicchiere di buon vino –
Lei solleva lo sguardo dai piatti, lo guarda con una bottiglia di quelle che servono a far bella figura con poco quando si hanno ospiti.
– ma perchè non hai preso il solito in cartone?, ti sei impazzito? –
La pazzia è un gesto audace dell’acquisto costoso.
– c’era una offerta, costava quanto l’altro, per una volta…-
Si mettono a mangiare, adesso quel silenzio ipotetico che pensavano non lo è per nulla. Note di chitarre e canti lontani, lontani come distanza fisica da loro, ma anche come nazione, sembra africano. Termine con il quale si riduce comodamente un dialetto di un popolo a una universalità. Come se uno cantasse in bergamasco o in siciliano e per comodità lo si definisse italiano. È un dialetto comunque e incomprensibile a loro. Gli autobus vanno e vengono, il terminal è a pochi metri, poco più distante dai capolinea si struscia per nulla ammiccante l’ultima destinazione della metro. A volte lui pensa che per il mondo moderno la fine della metro è la fine della civiltà, come quando era ragazzo, abitava in un quartiere dove le carrozze non si spingevano oltre il confine. La città si misurava in centimetri. Se la città è una jungla, quegli autobus che si muovono possono essere elefanti arancioni.
A quasi fine pasto accade qualcosa. Uno straniero “africano” per pigrizia suddetta di definizione, li nota. Si avvicina, loro capiscono che il loro spazio domestico non è più sicuro, lui accelera il passo, loro valutano rapidamente che cosa possono avere di valore per non andare oltre la semplice rapina. Lui arriva e non guarda, non incrocia lo sguardo di lei, che lo osserva quasi raggomitolata. Lui regge il suo sguardo, forse in attesa della richiesta di denaro.
– non avete i cuscini – esclama il ragazzo con un italiano perfetto, solo cantilenato con voce gutturale, si intuisce che è uno che non le manda a dire e fatica per pochi euro, si chiama dignità.
Temono di aver capito male, lui e lei, è lui che parla.
– come? –
– non avete i cuscini, quì è duro da dormire –
Non era domanda, ma affermazione, va via, torna quasi subito.
– eccone uno, potete tenerlo, noi siamo lì, quando volete, venite a trovarci –
“Lì” è un gruppo di uomini, donne e bambini, che cantano nenie davanti a un fuoco, poche centinaia di metri dalla loro panchina.
Lei prende coraggio, non lo lascia andar via e gli prende la mano sorridendo, non dice nulla
Lui prende il vino che gli è rimasto, lo mette in un sacchetto e taglia un pezzo grosso di parmigiano, gli dà tutto, il ragazzo tiene in mano il parmigiano con aria interrogativa.
– per i bambini – chiude sentenziando lui, indicando un paio di esserini che si intuiscono in contorno nel gruppo.
La paura è passata, lui pensa che certe volte i telegiornali esagerano quando inculcano la “paura del diverso”.
È ora di dormire, i momento in cui se la tua anima ha dei conti in sospeso con la realtà, aumenta il panico.
Lei ha una crisi di sconforto.
– come ci siamo ridotti, non abbiamo nemmeno i soldi per l’affitto di casa, buttati fuori come due barboni –
Lui prova a vederla dal lato non del tutto tragico
– vedrai che qualcosa si sistemerà, non dormiremo per sempre su una panchina –
– come si risolve, come? Che faremo?-
Lui ricorre al generalismo delle affermazioni di programma.
– non lo so, qualcosa troveremo –
Lui si alza, incrocia lo sguardo di ultimi passeggeri dei bus parcheggiati davanti, ha l’impressione che lo guardino con una sensazione di scampato pericolo e di paura che questa “nuova povertà” possa toccare a loro l’indomani. Gli viene in mente la sua ultima frase detta alla moglie.
“Qualche cosa troveremo”, la ripete a sè stesso ma ha il buio negli occhi, quello della paura di mentire. Lo dice inarcando la bocca all’ingiù, un clown triste, cornuto e mazziato.
Per un attimo, lungo, lunghissimo, pensa che il telo nero che sta calando su questi tempi sia impenetrabile, pensa che puzzi di disperazione. Ma un pensiero più di tutti lo circonda come un’aura.
La consapevolezza che per colpe non sue, qualcuno in alto, troppo in alto nelle scale del potere gli ha sottratto la voglia di coniugare i verbi al futuro. Se ci pensa, se solo pensa a un verbo al futuro, non riesce a sorridere. Nemmeno sforzandosi.