Lumia: La crisi in un Paese bloccato

Intervista al Sen. Peppe Lumia

In che condizioni si trova l’Italia all’indomani della crisi economica mondiale?

L’Italia è andata molto indietro, ha perso e continua a perdere capacità competitiva, quote di commercio mondiale ed innovazione. Un Paese fermo nell’uguaglianza, anzi più povero e diseguale, con una dinamica sociale perversa nei redditi e con una ricaduta devastante nella mobilità sociale. In sostanza, i figli dei lavoratori saranno sempre più poveri e, se non disoccupati, al massimo potranno aspirare allo stesso lavoro del padre, naturalmente in condizioni di precarietà. Pure i figli dei professionisti e degli imprenditori  saranno orientati a riprodurre, spesso a prescindere dal merito, le professioni dei padri, ma attenzione, anch’essi con meno risorse.

Un Paese alla deriva nelle divisioni territoriali con un Sud che non viene messo nelle condizioni di liberare tutte le sue potenzialità. Con un Mezzogiorno ancora una volta lasciato in balia delle vecchie e maledette condizioni di assistenzialismo e alle prese con mafie e inefficienze.

 

Quali sono le responsabilità del governo?

Allora, diciamo le cose come stanno: le leggi di stabilità approvate da questa maggioranza non hanno fatto altro che abbandonare il Paese a se stesso. C’è stata un’involuzione nella spesa pubblica, con un continuo aumento della spesa corrente che, insieme al disavanzo e al debito, ha eroso tutto, bloccato gli investimenti e penalizzato le energie produttive. C’è stata un’involuzione  nella vita economica: l’Italia non cresce. Italietta prima della crisi,  Italietta nella crisi, Italietta ancora, ahimè, dopo la crisi.

Il Governo Berlusconi, il Governo che più di altri ha segnato la vita della seconda Repubblica, chiuderà, mi auguro al più presto, il suo lungo ciclo di guida del Paese nel peggiore dei modi. Oltre a disastrare il senso dello Stato, lo spirito pubblico, il valore della responsabilità delle classi dirigenti, ha riportato sempre più le finanze pubbliche nella loro perversa condizione: debito, inefficienza, diseguaglianza.

 

Le cause della crisi economica mondiale non risiedono nel nostro Sistema-Paese. Cosa avrebbero dovuto fare, quindi, l’esecutivo e la maggioranza?

In sostanza, è il come stare nella crisi e il come uscirne che non convincono. Il governo non ha una grande idea di risanamento e cambiamento, non ha una rotta, nè una visione strategica per accompagnare e guidare il Paese fuori dai suoi limiti strutturali e dalle difficoltà in cui si trova, anche per la dinamica internazionale.

 

Ci faccia capire meglio.

Nella crisi ci si può stare in due modi. Il primo è un approccio classico, tipico dell’andazzo che ha avuto l’Italia negli ultimi decenni, tranne in alcuni brevi periodi: reagire tamponando, mettendo pezze, provando a limitare i danni; alla spesa corrente elevata ci si limita a rispondere tagliando, non riformando radicalmente la spesa pubblica e lo Stato. Si operano tagli lineari, che però in realtà sono a zig zag, spesso effettuati con furbizie e facendo riferimento a lobby territoriali o di tipo economico; un sistema di tagli che ormai raschiano il barile e non incidono sui problemi di fondo della formazione del debito dell’inefficienza del sistema e sulle capacità competitive e di crescita del nostro sistema produttivo e dei servizi pubblici. Anche all’interno del centrodestra non sono mancate voci autorevoli che denunciano addirittura la crescita della spesa corrente, la diminuzione radicale degli investimenti pubblici e la stessa crescita delle entrate. Insomma, Italietta… con tassi di crescita bassissimi, alto debito pubblico, spesa pubblica inefficiente, elevata divisione territoriale, scarsa coesione sociale, abbandono dei giovani e delle donne, azzeramento della ricerca e della formazione.

 

In altre parole il governo ha preferito affrontare la crisi, mettendo delle pezze piuttosto che tentando di risolvere i problemi strutturali del Paese.

È necessario un altro approccio alla crisi. Bisogna sposare l’idea che la crisi deve trasformarsi in una risorsa per riformare radicalmente il Paese, liberandolo dai suoi vecchi vizi e liberando tutte le sue stupende qualità e potenzialità.

In sostanza, la mia opinione è la seguente: senza riforme, senza robuste riforme non si cambia l’Italia e non si possono migliorare né il bilancio né le finanze pubbliche.

 

In termini concreti?

Cito alcuni esempi di due diversi approcci alla crisi. L’Italietta dei tagli delle risorse alla sicurezza fa mancare anche a questo settore i beni più essenziali, come ad esempio gli straordinari, la benzina per le automobili di servizio, un numero adeguato di pattuglie nel controllo del territorio. L’Italia delle riforme radicali riorganizza invece le innumerevoli forze di polizia, ma ancor di più ne riduce il gran numero complessivo, evitando ridicole sovrapposizioni e un numero di dirigenti e generali per forze di polizia da operetta.

Faccio un altro esempio: l’Italietta dei tagli lineari riduce il servizio giustizia, tanto che mancano 1.250 magistrati previsti dagli organici. Cito ad esempio un concorso previsto nel febbraio del 2008 per 500 nuovi magistrati e avviato proprio in quel periodo: alla fine sono stati 253 a superarlo, e dopo ben due anni ne sono stati assunti solo 50, perché sono finiti i fondi. Poi il Ministro della giustizia viene in Commissione bilancio e ci propone la via dei precari, chiamati ausiliari, per smaltire l’arretrato in sede civile. L’Italia delle riforme fa altre scelte, più moderne, che migliorano il servizio giustizia e fanno ridurre la spesa pubblica. Mi riferisco alla necessità di rivedere radicalmente i tre gradi di giudizio. Servono più coraggio e più innovazione, prevedendo un primo grado vero e sostanziale, un secondo grado solo qualora ci siano inedite novità, non presenti nella valutazione di primo grado, e un terzo grado in Cassazione per la sola valutazione ristrettissima della legittimità delle procedure seguite.

 

Eppure non solo in campagna elettorale, ma anche nel corso della legislatura, il centrodestra propone riforme radicali che poi puntualmente, calata l’attenzione, cadono nel dimenticatoio.

Appunto, l’Italietta degli sprechi lo annuncia, ma non ha il coraggio di abolire le Province e lascia in piedi enti e meccanismi di intermediazione della politica. Badate bene che si tratta, il più delle volte, di intermediazione burocratica e clientelare, e in molti casi anche affaristico-mafiosa.

L’Italia delle riforme abolisce le Province, valorizza i territori, assegna alle Regioni compiti legislativi di indirizzo e controllo e le libera da compiti di gestione e quindi dalla intermediazione perversa della politica. Deve avanzare un altro approccio di fondo, che liberi il Paese dai mali profondi che ancora lo attraversano, un meccanismo che abbatta la spesa clientelare, al Nord come al Sud, ed impedisca anche in questo caso, finalmente, di giocare a fare i furbi.

 

Diciamo anche che non tutto dipende dalla capacità dei governi di mettere in campo una politica efficace. L’assetto istituzionale italiano, con due Camere che fanno le stesse cose, e la presenza di molteplici livelli di governo non aiuta la politica a prendere soluzioni immediate e dirette per risolvere i problemi.

Il nostro Paese non può continuare ad avere lo stesso apparato statuale e le stesse regole statuali. Non solo non ci possiamo più permettere un numero così elevato di parlamentari, una Camera e un Senato con le stesse funzioni, le Province, che non abbiamo il coraggio di abolire.

 

Rimane il grande tema del Mezzogiorno che il governo sembra scoprire periodicamente in base alle contingenze e agli umori dell’opinione pubblica.

Il Mezzogiorno vive una condizione drammatica. Qui la crisi sta decretando la chiusura dei pochi stabilimenti industriali, mettendo in ginocchio la già gracile economia meridionale. Il Sud presenta un gap infrastrutturale inaccettabile, che scoraggia gli investimenti nazionali ed esteri. Per non parlare della presenza delle organizzazioni criminali che controllano il territorio, si infiltrano nella pubblica amministrazione, gestiscono le attività economiche a scapito dell’economia sana.

Spinto più da esigenze di partito che da un reale interesse nei confronti del Sud, Berlusconi comincia a interessarsi del Meridione perchè da qualche settimana gli sta procurando un po’ di fastidi. “Come tappare la bocca – si chiede – a chi minaccia divisioni e fratture interne nel mio partito? Come far credere agli elettori del Mezzogiorno che mi sto dando da fare per ridurre il divario tra il Nord e il Sud del Paese e allo stesso tempo tenere a bada la Lega?”

La risposta è degna dei film di Totò e Peppino. Intanto ha concesso i fondi fas (fondi per le aree sottoutilizzate) che avrebbe dovuto assegnare da tempo non solo alla Sicilia, ma a tutte le altre regioni del Sud. Risorse saccheggiate dall’esecutivo per finanziare interventi di carattere nazionale o a vantaggio del Nord, trasferite parzialmente in forma ridotta e per giunta utilizzabili dal 2012. In questo modo, malgrado la beffa evidente, Berlusconi riesce a sedare gli animi meridionalisti degli amministratori regionali siciliani della sua coalizione, fingendo un rinnovato interesse per la “questione meridionale”.

 

Nel frattempo la Lega proponeva l’introduzione delle gabbie salariali, ovvero la differenziazione dei salari in relazione al costo della vita.

Da che mondo e mondo per risolvere i problemi si agisce sulle cause. Il premier, invece, interviene sugli effetti. Piuttosto che investire per creare le condizioni dello sviluppo (infrastrutture, fiscalità di vantaggio per le imprese che investono nel Mezzogiorno, servizi efficienti, burocrazia agile e snella) vuole riequilibrare il divario riducendo le retribuzioni dei lavoratori del Sud. Qui il costo della vita è più basso, ma solo apparentemente. Non si tiene conto, infatti, dei disservizi a cui il cittadino deve sottostare e dei servizi inesistenti. Facciamo qualche esempio: una persona che per motivi di lavoro deve spostarsi da Palermo a Catania non può prendere il treno perché impiega circa sei ore per giungere a destinazione. Altro esempio: un cittadino che ha bisogno di un esame urgente in ospedale rischia di attendere in lista anche anni, col risultato che sarà costretto a rivolgersi a strutture private costosissime.

 

Nell’immaginario comune domina il pensiero per cui il Mezzogiorno sprecone  e scialacquatore è assistito, malvolentieri, dal Nord produttivo ed efficiente e che pertanto bisogna chiudere i rubinetti. Come se il sottosviluppo economico in cui versa il Sud non fosse un problema del Paese e rappresenti solo una zavorra e non un’opportunità per l’economia italiana.

Il governo non fa altro che affrontare la “questione meridionale” con le categorie mediatiche della propaganda e quelle politiche della marginalità e dell’assistenzialismo. Sul Mezzogiorno il governo è corso a mettere qualche toppa con l’ennesimo piano per il Sud, con le risorse di sempre, che periodicamente vengono rimodulate e presentate come se fossero nuove. Mancano le risorse, anzi sono sempre meno; utilizzate male e in modo sempre più centralistico le risorse che rimangono.

Al di là dei pronunciamenti, al Sud sono destinati pochi investimenti, come dimostrato dai tagli di 25 miliardi di euro ai fondi Fas e dirottati da questo governo altrove e i tre miliardi di tagli fatti alle infrastrutture in Sicilia.

Pochi investimenti, quindi, e una soluzione vecchia, ottocentesca, come le gabbie salariali. L’opinione pubblica continua ad essere bombardata da un’informazione falsa, che non dice come il costo del denaro per fare gli investimenti sia più alto che al nord e i costi dei trasporti abbiano un’incidenza notevole sui beni prodotti al Sud.

 

Nonostante quello che lei dice non manca occasione che la Lega attacchi il Sud, mentre il governo annuncia provvedimenti di carta a cui non dà seguito.

La cosa più perversa è che questo governo è in continuità con l’idea di sempre, quella che si coltiva almeno da 150 anni a questa parte: il Nord produce; il Sud consuma i prodotti del Nord.

Il Nord produce e ha diritto ad avere risorse ingenti per organizzare un moderno sistema nelle infrastrutture, per gli asili nido, le scuole e l’università. Il Sud consuma e deve utilizzare le sue risorse per mantenere quella capacità di reddito attraverso il meccanismo dell’assistenzialismo, con un ruolo della politica che si gioca tutto sulla perversa intermediazione burocratica e clientelare e, spesso, affaristico-mafiosa.

 

Bisogna voltare pagina.

Allora la soluzione non può che essere diversa. Al Sud bisogna produrre di più. Il Sud deve avere la forza e l’autonomia di riavviare un processo innovatore moderno. Produrre di più significa allargare la propria base produttiva sia dei beni che dei servizi, tanto sul versante industriale che su quello culturale e turistico. Ma questo stesso non basta.

Se non vogliamo cadere nella retorica delle gabbie salariali dobbiamo fare un ulteriore passo in avanti. Bisogna produrre innovazione dei processi e dei prodotti, chiamando a raccolta i migliori saperi e la migliore ricerca. Così potremo competere nei mercati globali senza far pagare la convenienza di investire al Sud ai lavoratori, diminuendo le loro retribuzioni. Ma c’è un terzo passaggio indispensabile.

Quale?

Dopo aver investito su produzione e innovazione bisogna puntare sul rapporto legalità e sviluppo. Senza un legame solido e inedito tra queste due dimensioni tutto rischia di essere vano, perché, oltre alla marginalità salariale, vivremo anche le gabbie mafiose. Le mafie, infatti, in un contesto marginale, avranno sempre il sopravvento, non solo perché si limitano a mantenere il contesto in condizioni di sottosviluppo, ma perché producono una modernizzazione senza diritti e senza regole, dove fare un’opera pubblica significa ad esempio sostituire il cemento alla sabbia, come è successo per l’ospedale di Agrigento e per tante altre opere pubbliche.

Legalità e sviluppo, quindi, non si possono più separare e devono diventare la sfida intorno a cui far crescere una nuova classe dirigente, che abbia la competenza e l’onestà per spazzare via le mafie. Rompiamo, quindi, tutte le gabbie: quelle salariali e quelle mafiose, producendo innovazione, coniugando legalità e sviluppo.

Questo rapporto, inoltre, lega le riforme alla necessità di abbattere il debito e aggredire, per superarli, i limiti strutturali della spesa pubblica. Per anni il centrodestra ha proposto un approccio opposto: con meno legalità pensava di dare più energia allo sviluppo; è successo, invece, che adesso l’Italia è più povera di legalità e con ritmi ridicoli di sviluppo.

 

Facile a dirsi difficile a farsi.

Per fare questa rivoluzione moderna e riformista sono necessari una spesa pubblica selettiva e mirata, incentivi alla scuola e all’innovazione, investimenti in infrastrutture intermodali nei trasporti, incentivi alle imprese con un meccanismo automatico del credito d’imposta a sostegno degli investimenti e dell’occupazione, un sostegno moderno alla lotta alla mafia, che abbia almeno alcuni punti irrinunciabili, a cui non è stato dato seguito, nonostante le proposte che più volte abbiamo presentato in questa Aula. Mi riferisco, ad esempio, alla necessità di imporre la denuncia obbligatoria per le imprese quando subiscono una richiesta estorsiva; denuncia obbligatoria non da penalizzare con un sistema penale, ma da favorire con incentivi fiscali per chi denuncia e disincentivi per chi invece sottostà alle richieste estorsive. In questo modo, si avvierebbe un moderno controllo della gara e dei cantieri. E ancora l’introduzione del reato di autoriciclaggio e la gestione produttiva dei beni confiscati che avete più volte eluso in Parlamento.

Piste di lavoro ed esempi concreti che spingerebbero verso un’Italia più giusta, moderna ed efficiente.

Dobbiamo avere il coraggio di ridefinire il patto che tiene insieme l’Italia. Ci vuole un’altra unità d’Italia, in cui tutte le Regioni debbono diventare terra di produzione, in cui il Mezzogiorno non deve essere illuso, come è stato fatto anche in questa manovra, con delle scelte che in apparenza pensano al Mezzogiorno, ma che in sostanza provano a prenderlo in giro. Mi riferisco alla beffa dell’articolo 40, intitolato addirittura «Fiscalità di vantaggio per il Mezzogiorno», in cui non c’è, anche in questo caso, alcuna idea strategica. C’era qualcosa che poteva essere valorizzata, come le zone franche urbane, ma sono state tagliate. Addirittura si sarebbe potuto fare meglio del Governo Prodi, che adottò quella scelta, facendo delle zone franche urbane qualcosa di sostanzioso, con un’ampia convergenza. Tutto questo non è stato fatto, e lo stesso si può dire per le infrastrutture e per altre scelte contenute nella manovra.

Nel nostro Paese c’è sì la consapevolezza che una scelta severa, rigorosa, dolorosa va fatta, ma non si vuole essere presi in giro. Si vuole un altro Governo. Si vuole un altro approccio. È quello che dobbiamo costruire. Insomma, nel Sud si può investire, ma cambiando logica e, per questo, bisogna cambiare Governo.