La deportazione dei Carabinieri romani nei Lager nazisti ; una delle pagine dimenticate della nostra storia recente, ci dà opportunità di riflessione in merito il libro “7 ottobre 1943: la deportazione dei carabinieri romani nei Lager nazisti“. Un’opera di Anna Maria Casavola che riporta alla luce, grazie ad un’attività di ricerca nata nel centro studi del Museo storico della Liberazione di via Tasso, un evento inspiegabilmente scivolato via dalla memoria collettiva. Che i Carabinieri fossero stati disarmati e deportati si sapeva, però nessuno ne aveva mai parlato e nessuno ne onora la memoria, e non se ne comprende il perché.
Il libro, edito da Edizioni Studium, è introdotto da Max Giacomini, già presidente dell’Associazione Nazionale Ex Internati (ANEI), mentre la prefazione è del Prof. Antonio Parisella e la postfazione del Col. Giancarlo Barbonetti, Capo Ufficio storico del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri.
E’ stata la prima grande deportazione nazista, superiore per numero, duemila o duemila e cinquecento uomini, a quella successiva di una settimana degli oltre mille ebrei ed è possibile stabilire tra i due fatti anche un collegamento. Ciò che emerge dai documenti, infatti, finalmente non più secretati, è che ci troviamo di fronte ad una pagina oscura della storia del nostro Paese, rappresentata non solo dall’occupazione tedesca ma dalla risurrezione dello stato fascista dopo la liberazione di Mussolini il 12 settembre 1943, per cui non è facile stabilire una linea netta di demarcazione tra l’asservimento agli occupanti, il collaborazionismo volontario e l’azione in stato di necessità.
Quanto alla liberazione di Mussolini, come è stata raccontata dai tedeschi, esce dagli archivi dei Carabinieri un’altra più attendibile versione su cui gli storici avranno da discutere. Per i Carabinieri quel che è certo è che l’ordine di disarmo, prologo alla successiva deportazione, porta la firma di Rodolfo Graziani, Ministro della Difesa nazionale della RSI e Maresciallo d’Italia. Questi agì naturalmente d’intesa con il comando tedesco, ma se fu lui il suggeritore o lo strumento è un quesito irrisolvibile. Egli, per costringere gli stessi ufficiali dei Carabinieri a disarmare i propri uomini e i colleghi di grado inferiore, aveva minacciato di passare per le armi i disobbedienti e di effettuare rappresaglie sulle famiglie degli ufficiali e sott’ufficiali, che tra l’altro abitavano negli alloggi demaniali delle caserme. E poiché Graziani era uomo conosciuto per le sue repressioni feroci, per evitare più gravi conseguenze, l’ordine fu eseguito.
Così i carabinieri, ignari di tutto (gli ordini vincolavano gli ufficiali superiori al segreto assoluto), furono presi in trappola e credettero di essere stati traditi. “Il giorno della cattura fummo fatti cadere in un tranello tesoci dai tedeschi e dai non Militari in attendono il loro destino tra i binari di una stazione ferroviaria meno crudeli repubblichini. Eravamo un ingombro, un ostacolo per i nazifascisti, eravamo testimoni da eliminare, eravamo l’unica protezione per le popolazioni avvilite e stanche e decisero di disfarsi di noi“, così ricorda quel giorno il maggiore Alfredo Vestuti deportato.
Anche il Col Kappler delle SS aveva interesse all’allontanamento dei Carabinieri dalla capitale prima di mettere in atto la deportazione degli ebrei dall’Italia, perché i Carabinieri si erano rivelati per la maggior parte antitedeschi: avevano combattuto contro di loro dopo l’8 settembre e, come forza di polizia nella CAR, avevano sistematicamente boicottato gli ordini del Comando tedesco quando questi colpivano la popolazione. Di qui il giudizio di inaffidabilità. Ecco quindi il collegamento tra le due deportazioni: Kappler temeva che il rastrellamento degli ebrei avrebbe potuto innescare una rivoluzione come qualche giorno prima a Napoli.
Effettuare la razzia nel Ghetto con ottomila “infidi” Carabinieri, che avrebbero potuto anche reagire, sarebbe stato un azzardo. Kappler, quindi, chiede e ottiene che siano disarmati e trasferiti. Graziani emette il suo ordine il 6 ottobre. Si dice che tutti gli ottomila Carabinieri di Roma devono andare a prestare servizio…..a Zara! “Grazie a notizie fatte trapelare nella notte il piano di disarmo non ebbe il successo che speravano i tedeschi. – precisa il Colonnello Barbonetti – La maggior parte dei carabinieri fu catturata nelle grandi caserme della capitale, ma nelle situazioni locali molti si diedero alla macchia.”
Partendo da questo spunto, il libro mette in evidenza il contributo spontaneo che alla Resistenza è venuto dai Carabinieri romani: sia nel periodo 8 settembre 7 ottobre 1943, sia successivamente fino alla liberazione della città, da parte di quei Carabinieri (circa 6.000) che erano sfuggiti alla deportazione ed avevano dato vita, sotto la guida del generale Filippo Caruso al Fronte militare clandestino dei Carabinieri che affiancava quello del colonnello Montezemolo. “Da quel momento –sostiene Barbonetti – tecnicamente erano dei latitanti. Molti avevano portato via le loro armi. Erano esperti ed addestrati. Erano benvoluti dalla popolazione. Dopo un primo momento di sbandamento, cominciarono ad organizzarsi ed entrarono nelle formazioni della resistenza dando un notevole contributo anche agli alleati con attività di sabotaggio e di informazione sugli obiettivi militari da colpire.”
Intanto, i Carabinieri catturati compiono il loro viaggio prigionieri della macchina industriale di deportazione ideata dal Terzo Reich. “Un vagone bestiame: 6 cavalli o 40 uomini. Noi ci misero in 40 dentro ogni vagone e poi lo piombarono.” dice Abramo Rossi, uno dei deportati, carabiniere in congedo, che prosegue: “Per fare i bisogni corporali ci hanno fatto scendere a Bologna. Oggi c’è una lapide che ricorda il nostro passaggio. Ci hanno preso con l’inganno. E’ stato un tranello. Anche i nostri ufficiali sono stati ingannati“.
Carabinieri entrano nella Capitale dopo la liberazione La parte più inedita della ricerca riguarda la ricostruzione, passo dopo passo, del rapporto persecutorio che l’Arma subì da parte della RSI sia sul territorio nazionale (culminata in una successiva e definitiva deportazione nell’agosto 1944), sia nei Lager in Germania, dove i Carabinieri entrarono a far parte della massa degli IMI.
Gli IMI, 600-700 mila militari italiani catturati dopo l’8 settembre su tutti i fronti di guerra, misero in atto da subito nei campi una resistenza non armata, ma non inerme che fu una spina nel fianco, in particolare per la RSI che avrebbe voluto trarre dagli internati il nuovo esercito di Mussolini. Come si sa l’adesione fu minima.
In genere ai prigionieri si chiede di sopravvivere non di testimoniare continuamente le proprie concezioni politiche e di scegliere il proprio destino. Infatti, optando per la RSI sarebbero rientrati in Italia, almeno questa era l’allettante promessa. Eppure essi sono stati capaci di dire NO togliendo una possibile legittimazione alla RSI. Un NO, che come ha ribadito più volte Max Giacomini, è stato pronunciato da militari di ogni ordine e grado, arma e categoria, appartenenti a reparti diversi, catturati in territori ed in circostanze diverse, ristretti in Lager diversi, senza punti di riferimento, senza suggestioni ed informazioni gerarchiche, cittadini indigenti, benestanti, braccianti, contadini, impiegati, professionisti, intellettuali, analfabeti, cittadini del nord, del sud del centro, delle isole. Questo è l’aspetto più rilevante di questa pagina sconosciuta di storia.
Dall’ingente materiale consultato di documenti, diari, memoriali esce fuori una lettura diversa della tragedia dell’8 settembre, non tanto l’ora del disfacimento delle istituzioni, ma l’ora della verità per valutare, secondo le diverse motivazioni, l’attitudine etica degli italiani. E’ stata l’ora in cui ciascuno si è trovato solo di fronte a se stesso a prendere decisioni che non avrebbero più avuto l’approvazione di una qualsiasi autorità. In nessun periodo storico più di questo e forse in nessun altro Paese, il luogo deputato alle scelte è stato la coscienza di ognuno e ognuno dal posto dove si è trovato ha portato o non ha portato all’oceano la sua goccia d’acqua.
Per questi motivi, per il loro valore di testimonianza, gli eventi narrati dal libro non debbono restare confinati negli archivi e nelle biblioteche militari perché appartengono alla storia del nostro paese e fanno parte idealmente del suo patrimonio morale e civile. Se si ignorano è come se non fossero mai stati
IMI- Internati Militari Italiani
RSI- Repubblica Socialista Italiana