Una volta, qualche tempo fa’, in questa terra martoriata dal cavuru e dalla sete, in un piccolo paese vicino alla città chiù ranni di Sicilia, c’era un caruso, un ragazzo veloce di testa e di parola. Si chiamava Giuseppe, Peppino per gli amici. Figghiu di Luigi e Felicia, na bedda fimmina, Pippinu era un bravo caruso, un ragazzo educato e ubbidiente, ca non si tirava mai indietro quando c’era di fare qualche cosa che era importante. Pippinu era molto ubbidiente, ma proprio assai; però a lui non ci piaceva di essere ubbidiente a quello che gli altri dicevano e facevano, o ci dicevano di dire, di non dire, di fare e di non fare, perché lui preferiva di essere ubbidiente a quello che diceva iddu, a quello che pensava, che ci batteva dentro al cuore comu un martello, e che ci scavava nell’anima comu un trapano. Era un bravo caruso Peppino.
Quando c’aveva diciassett’anni, per un disguido, Peppino se lo erano portati per la prima volta d’intra a na caserma dei carabinieri, proprio perché, oltre a dire e fare, lui pure lo scriveva quello che voleva, e lo scriveva su un giornale che si chiamava “L’Idea socialista”, e che lui stesso aveva fondato assieme ad altri compari suoi, ma che piaceva solo a lui e a qualche altro là in paese, perché molti non lo leggevano e non lo volevano leggere, e molti altri non lo volevano nemmeno che qualcun altro se lo aprisse per leggerlo. Io, personalmente, non ero capace di leggere bene, perciò manco mi avvicinavo. Col suo giornale, però, Peppino stava facendo – se posso dirlo – incazzare molti stimabili signori, per le cose brutte che ci diceva sopra. Infatti il ragazzo – che era sempre un bravo ragazzo – aveva parlato male del sindaco del paese, che non se lo meritava di essere preso così a male parole, e che era proprio conosciuto per essere una brava persona, che ama la famiglia, i valori, la maf… si, una brava persona, e Peppino sbagliò, e non ci doveva parlare così male di tanta brava persona. Ma alla fine era un caruso, non c’aveva manco vent’anni, e a un caruso queste cose ci possono capitare, di essere un po’ impetuoso, un po’ sarvaggio.
Il problema di Peppino era che lui si era messo appresso a gente un poco strana, quelli che chiamavano communisti, gente poco raccomandabile che parlava di cose che ora nun sacciu. E Peppino, che pure di queste idee gli era venuta la voglia, si era unito a loro e si era pure tirato dietro ad altri carusi come a lui. Ma il problema vero era che Pippinu era uno che ci metteva sempre il cuore e la testa, e certe volte ci sbatteva pure le corna. Infatti col tempo che passava Peppino iniziava ad esagerare con le incornate, e più ne dava più ci piaceva di darle.
Una volta su quel suo giornale, infatti, mi parse di sentire che qualcuno diceva che c’era scritto, ne sono sicuro, ca la Mafia fosse una montagna di… minchia! C’era scritto che era una montagna di una cosa che non mi pare giusto di dire, in rispetto di amici e gente onorabile, ma una cosa troppo brutta veramente, e troppo irrispettosa. Accussì, dopo chi scrisse sta cosa, ed altre cose di molto peggiori, ce lo chiusero veramente quel suo giornale. Nello stesso periodo intanto in paese si murmuriava assai, perché a molte genti importanti non ci piaceva questo comportamento, soprattutto che era un comportamento di un giovane di una buona famiglia stimata per bene; e proprio per questo negli stessi tempi iniziarono le sciarre con suo padre, uomo di rispetto, amico e parente di uomini di rispetto. Luigi, buon anima, c’aveva, infatti, proprio per questo suo figlio con i grilli per la testa, i problemi e i rimproveri degli amici e di tutti i signori.
Più tardi, quando c’era l’anno dei nudisti e delle scuole occupate che si sentivano alla radio, Peppino si era pure messo in testa, assieme a quei suoi amici, che erano i difensori della terra, e che non volevano quella nuova strata per gli aeroplani che dovevano costruire sulle case di quei disgraziati contadini. Io sentivo in giro che era una cosa buona quella pista, ma ai contadini non ci piaceva proprio, perché per costruirla gli dovevano abbattere le loro case e i loro terreni. Era il prezzo del progresso si diceva, e me li ricordo che c’erano gli elicotteri e i militari, che li massacravano ai contadini. Puru Peppino si pigghiò un sacco di botte per quella storia dei terreni espropriati, mentre chiddi, i communisti, che ci erano stati appresso a Pippinu, ora che erano entrati in giunta lo avevano abbandonato. Sulu cu quattru scanazzati amici suoi.
Col passare del tempo Peppino non era più un caruso però. I vent’anni li aveva passati e si avvicinava ai trenta. Era un uomo, cu dda barbazza longa e l’aria intellettuali che aveva, e a certi cristiani ora ci cominciava a infastidire seriamente questo modo suo, che diceva cose che non si dovevano dire, e faceva cose che non si dovevano fare e parlava di persone che non si doveva parlare. Poi ogni giorno si tirava sempre più picciutteddi a fare le cose che ci piaceva fare a lui. Pure le fimmine si era tirato, che ora non ci piaceva più di stare a casa a fare le mogli, che si volevano emmancipare – come dicevano loro -. Ci era venuto in mente a ddu crastu di Pippinu che poteva parlare di più e farisi sentire meglio con un microfono e quattru canzuna. Sempri cu ddi scanazzati, dimezzati dai numerosi loro impegni politici, aprì una radio, ca si pagavano da soli – anche perché chi c’era che li aiutava a quelli – e ci diedero un nome strano. Radio Aut c’era scritto sul lenzuolo che stava appeso al balcone, Giornale di Controinformazione Radiodiffuso, e da intra parravano e parravano di cose e di persone, di cristiani che non si ci poteva parlare, a pigghiari p’u culu a tutti, con una cattiveria che non era giusto di averla. E trasmettevano musica classica, rock ‘n’rollo, e notizie ca non si sentivano da nessuna parte. Peppino era contento, e scherzava e si divertiva a parlare delle cose che tutti ci dicevano di non parlare, come sempre ci era piaciuto di fare. Peppino faceva scantare, ora stava veramente rompendo i coglioni a qualcuno.
Si cominciava a sentire in giro che Peppino aveva deciso in quel periodo che si voleva portare al municipio, ad entrare dentro il consiglio comunale, considerato che a breve ci sarebbero state le elezioni. Si voleva portare con un simbolo che sembrava tipo communista, ma non come quello degli altri communisti, che prima erano stati suoi amici. E io lo vedevo che c’era quella santa donna di sua madre che ci stava appresso in quest’ultima sua pazzia, che lo voleva convincere che non si poteva fare di portarsi al municipio. Quella voleva che lui si laureava, voleva che se andava, e gliel’aveva pure chiesto al figlio suo di andarsene lontano, nella California dicevano, in America, per un periodo di riposo. Ma le corna di Peppino dovevano incugnare sempre contro qualcosa, e perciò si era fissato che prima di andare alla California si voleva portare al Comune.
E c’erano quasi i giorni delle elezioni quando a Peppino lo convinsero a non portarsi. E mandarono proprio a me a convincerlo. Non fu facile. Era una sera scura scura, e puru a luna s’affruntava ad illuminarmi, quella notte. Ma io chiddu avia a fari, e chiddu fici. Lo abbiamo preso e picchiato, talmente forte che tuttu u sangu mi macchiò la camicia; poi l’abbiamo messo sui binari, così come ci avevano detto di fare, e mentre io lo sdivacavo supra a ferrovia, l’altro che era con me pigliava l’esplosivo, e insieme lo piazzammo sotto la schiena di Pippinu. Con l’esplosivo l’abbiamo fatto saltare mentre era sui binari, e i pezzi del corpo di Peppino volavano da tutte le parti, e mentre volavano, si portavano dietro i so idee pazze, pazze come il suo programma alla radio, che qualche volta ascoltavo e che mi faceva ridere. Pezzi grossi e pezzi piccoli, a destra e a sinistra, supra i muntagni e n’menzu i pascoli, n’to cielu e intra u mari, di idee viaggiavanu come mai prima, e io ci provavo a prenderle, ma erano troppo veloci, scintilli di focu ca si sparpagghiavanu dappertutto.
Quando vedemmo i risultati elettorali Don Tano era calmo e tranquillo, come quando passeggiavamo a fianco del maresciallo Panepinto e parlavamo di sport. Io invece ero esagitato, mi sudavano le mani e tremavo. Le botte dei militari, l’emarginazione, le legnate nostre, il tritolo, il suo corpo in mille pezzi. Non era bastato, du curnutu di Peppino era salito al Municipio.