Se associare il Medio Oriente a politiche retrograde e sessiste è ormai la prassi, un pugno di giovani e ambiziose atlete non hanno esitato a “dare un calcio” agli stereotipi. Le ragazze del Bastan Football Club hanno affrontato le soldatesse italiane in un originalissimo match protrattosi sino ai calci di rigore. È accaduto ad Herat, cittadina afghana sede delle truppe italiane in missione, in occasione della manifestazione “A match for Women Rights – Afghanistan and Italy, together we win”, organizzata dalla Cooperazione civile e militare (CIMIC). Ad avere la meglio è stata la squadra afghana, che si è guadagnata non soltanto la vittoria, ma l’occasione per rivendicare i diritti delle donne: è bastata una partita di calcio per far sentire la propria voce, manifestare il desiderio di frantumare quel soffitto di cristallo che stenta ancora ad infrangersi.
Abbiamo raccolto la testimonianza di alcuni fra i membri del contingente italiano in Afghanistan, che ci hanno dato l’opportunità di conoscere le realtà mediorientali prescindendo da lenti deformanti che di cui spesso non riusciamo a spogliarci. Alla loro voce si è unita anche quella di Mahboba Jamshidi, direttrice del Department of Women Affairs (DOWA) di Herat, organo nato per assicurare alle donne del Paese il supporto a cui ancora non possono rinunci
Layla, il capitano della squadra afgana vincitrice del match, ha ringraziato il Contingente Militare Italiano: senza un aiuto simile tutto ciò sarebbe stato irrealizzabile. Ma in che modo il presidio militare ha potuto cambiare la quotidianità delle donne Medio Orientali? Cosa ha convinto le donne scese in campo a battersi per un diritto?
“Le Forze della Coalizione, nel corso dell’ultimo decennio, non solo hanno consentito un processo di costituzione e formazione dell’apparato governativo afghano e delle Forze di Sicurezza locali, ma hanno permesso la diffusione di un’idea. L’Afghanistan aveva tutte le carte in regola per uscire dall’ombra bellica, da un passato burrascoso e turbolento, per proiettarsi verso un futuro di democrazia e pace. In questa idea, la componente femminile afghana – da sempre protagonista delle cronache per eventi drammatici e tristi – ha saputo ritrovare lo slancio sociale e partecipare così alla rinascita di questo paese.
L’intero processo evolutivo/democratico ha saputo sostenere la donna afghana. E’ la stessa Costituzione che esalta l’uguaglianza di genere, ma anche il NAPWA, ovvero Piano d’Azione Nazionale per le donne afghane, documento che richiama ed acclama i principi della Risoluzione UN 1325 sul ruolo della donna nella società come pilastro fondamentale per la Sicurezza. Insieme alla Costituzione del Ministero degli affari Femminili, tali atti non solo testimoniano la voglia di cambiamento, ma rappresentano segni concreti di un processo sociale in movimento.
Tutto ciò, unito all’incredibile forza di volontà della donna afghana, ha permesso di raggiungere risultati che in altri paesi del mondo potrebbero apparire normali, ma – credetemi – una partita di calcio femminile in Afghanistan è molto di più; è una vittoria sociale”.
Oltre venti persone, un pallone e quattro chiacchere: cosa c’è di meglio di una partita di calcio? Per noi, nulla di più naturale. Eppure non deve essere stato facile vincere la diffidenza ed il timore nascoste dietro lo chador di queste donne pioniere. Lo scetticismo si è trasformato in complicità? Cosa ha indotto le giocatrici a dar fiducia ad una simile opportunità?
“Sicuramente l’intraprendenza di una piccola società sportiva, unitamente al coraggio di queste giovani atlete che, trascinate da autentico ardore sportivo, hanno “convinto” anche i più scettici – forse anche le stesse famiglie – sono alla base di questo splendido risultato. Poi c’è lo sport. Il calcio, sport maschile per eccellenza, ma comunque in grado di trascinare milioni di persone di fronte ad una televisione.
Lo sport come fattore sociale di sviluppo, di integrazione, apprendimento dei ruoli, disciplina del corpo, ma anche e soprattutto sviluppo della personalità dell’individuo.
Ecco: la fiducia, la complicità nascono dalla consapevolezza sociale che unite, anche attraverso il gioco di squadra, le donne afghane possono vincere qualsiasi partita”.
Pochi mesi fa Malalai Joia, espulsa dal parlamento afgano nel 2007, ha denunciato “una presa in giro della democrazia e della guerra al terrorismo”. Secondo la donna insomma, si stava meglio quando si stava peggio, prima che gli Stati Uniti e la NATO schierassero le loro forze nel Paese. Negli anni ’70 le donne vestivano abiti moderni, oggi si servono del burqa per scoraggiare gli stupri. Cosa rispondere ad affermazioni del genere? C’è stata davvero “un’inversione di marcia”?
“Negli ultimi quindici anni ci sono stati cambiamenti positivi e buone opportunità per la vita delle donne, più che in passato. Ma ci sono stati anche degli ostacoli, per esempio l’opinione dell’opposizione di governo circa il ruolo delle donne, la cui presenza nella società è vista come un fattore negativo. Esistono ancora fazioni fondamentaliste, ammalate di estremismo, di certo non lo si può negare.
In ogni caso, molte sono state le attività svolte per il settore femminile per aumentarne le capacità e rivitalizzarne la motivazione; tornare indietro è quindi impossibile. La strada la mostra oggi anche Rula Ghani, la First Lady afghana,
che non smette di impegnarsi per questi temi, dall’alto della sua oramai ufficiale posizione di responsabilità”.
Al di là di eventi sporadici, promossi da istituzioni internazionali, quanto le donne afgane combattono per ciò che spetta loro? A quante è concesso scendere in piazza e quante lo desiderano davvero?
“Ci sono state molte opportunità con le Istituzioni internazionali dal punto di vista finanziario e molte donne hanno provato ad affermare i loro diritti sostenendo con forza le loro idee.
Ma ancora sono poche quelle autorizzate ad uscire dalle loro case, in piazza, per le strade ad esigere i loro diritti. Credo fortemente che, come tutta l’umanità, anche la donna afghana debba vedere rispettata la propria integrità sociale, ma alla base delle nostre informazioni, sono ancora fra il 30 e il 40 per cento le donne afghane che manifestano affinché venga tutelata. Badate bene, parliamo di diritti basilari, non di miracoli”.
Camminando per le strade di Herat, si percepisce un nuovo desiderio di cambiamento o molte donne sono ancora avvolte da una spessa aurea di paura?
“Le donne di Herat hanno uno status talvolta impensabile in altre realtà nazionali: per esempio, possono camminare per strada tranquillamente. Ma nemmeno qui esiste una normalità e non sarebbe difficile trovare qualcuna che ammetta di avere ancora paura. Temono ancora gli esponenti dell’insorgenza e talvolta anche altri cittadini, ancora obnubilati da una mentalità chiusa e rimasta ancorata al recente passato. C’è che fra loro mantiene un atteggiamento di superiorità se non addirittura di violenza nei confronti delle donne”.
Si sente spesso parlare di emancipazione, ma si tratta di un processo politico o culturale? E’ il governo a dover cedere, o l’intera percezione dell’universo femminile agli occhi della popolazione deve ancora cambiare?
“Senza alcun dubbio ci sono stati molti miglioramenti in diversi settori per le donne, per quanto da relativizzare nella specifica condizione del Paese. Ma siamo ben lungi dal ritenerci soddisfatti. É la mentalità delle stesse donne a dover cambiare maggiormente”.
Cosa crede che veda nell’Afghanistan, un occidentale? E’ davvero la terra dell’oscurantismo e delle prevaricazioni sul “sesso debole” o c’è altro dietro agli stereotipi?
“Chi parla dell’Afghanistan senza mai averlo vissuto o visitato, riporta ciò che viene scritto dai tanti autori, dai giornalisti. Sino a qualche tempo fa la lettura mondiale esprimeva sdegno e raccontava di atrocità che questo Paese ha sofferto e vissuto nel corso degli ultimi decenni.
Mi auguro che si inizi a scrivere dell’Afghanistan descrivendolo come il Paese dei bazar locali che profumano di spezie, dei tanti mercanti, degli splendidi tappeti di lana sapientemente intrecciati da mani laboriose, dell’orgoglio di un popolo che non è nato per essere dominato e che vuol rimanere libero. Spero di leggere di donne che grazie alla loro intraprendenza e capacità si fanno largo nel mondo politico ed economico. E – perché no – di giovani calciatrici che colpendo un pallone esprimono la loro voglia di libertà. In un certo senso attraverso questa intervista, qualche passo lo stiamo già facendo.
Nulla, purtroppo, di ciò che è stato scritto è riconducibile ad uno stereotipo, perché il passato dell’Afghanistan è fatto di tristi realtà. Tuttavia è corretto comunicare al mondo che qui è in atto un forte processo di cambiamento politico, economico, ma soprattutto sociale”.
Quante fra le donne in cui vi siete imbattuti vi hanno concesso la possibilità di parlare, confrontarvi e magari sedervi insieme al tavolino di un bar? Quante di loro vi hanno potuto e voluto parlare della propria quotidianità?
“Quotidianamente il nostro personale entra in contatto con rappresentanti femminili della società afghana. Dalla donna militare, all’artigiana, ma anche grandi professionalità: parliamo delle Direttrici di Dipartimenti governativi, di imprenditrici, ed altre ancora.
Il caffè – o meglio, il thè – lo abbiamo bevuto insieme, magari non sedute al tavolino di un bar al centro di Herat, perché le condizioni di sicurezza non lo consigliano. Ma i momenti di serenità durante i quali è stato possibile fare quattro chiacchiere ci sono stati e sono sempre risultate occasioni di proficuo scambio culturale”.
In fotogallery: il corso “Mobile Check Point and Body Searching” per il personale femminile dell’Afghan Uniform Police del Comando Provinciale di Herat