Colonnello in congedo dai carabinieri italiani Angelo Jannone è uno dei testimoni oculari dell’intensa attività che è stata propedeutica all’arresto di Totò Riina. Quando è arrivato a Corleone, nel 1989, come ci ha raccontato, erano anni particolari in cui la lotta alla mafia non era al centro delle indagini investigative e dell’agenda politica, e il clima che aleggiava era di assuefazione e rassegnazione. Soprattutto la caccia ai latitanti, i padrini di Cosa Nostra.
Oggi Angelo Jannone ha deciso di raccogliere l’immenso bagaglio di un’attività intensa passata alla ricerca di boss e gregari, sia in Sicilia che in Calabria, sia attraverso la stesura di libri sia attraverso l’attività di docente all’Università La Sapienza di Roma, dove insegna criminologia. Quando l’abbiamo intervistato ci ha raccontato di essere tornato da poco dall’evento organizzato da “Legalitalia”, a Reggio Calabria, l’evento organizzato ogni anno in memoria del giudice Antonino Scopelilliti. ma in generale, ha un pensiero molto critico nei confronti di quell’antimafia dei palchi e delle piazze, intrisa di retorica e celebrazioni fine a se stesse.
Ventun’anni sono trascorsi dalle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Cosa è cambiato secondo le in questi anni?
L’inizio della fine dell’egemonia dell’anima stragista che si espresse con la prepotenza di Riina che saltava ogni regola. Ad esempio quest’uomo era riuscito a inserire un suo uomo all’interno di ogni mandamento e tutti gli omicidi eccellenti erano decisi da lui. Prima non c’era nel Dna di un mafioso l’idea di colpire uomini dello Stato e con le stragi del 92-93, si è raggiunto il culmine, il punto di non ritorno. ma quel momento è stato anche l’inizio della fine di Cosa Nostra e dei corleonesi. Dopo le stragi c’è stata un’attività repressiva molto intensa. In vista della sentenza definitiva del maxiprocesso, furono disposti i fermi di tutti gli esponenti di Cosa Nostra e fu adottato il 41 bis. L’attenuazione del ‘93 E’ solo mezza la storia delle mancate proroghe del carcere duro ai mafiosi. Alla fine solo 10 su 300 dei beneficiati nel 93 erano uomini di Cosa Nostra e non erano certo capi. In generale tutta la stampa e i malinformati hanno cavalcato questa storia, ma nei fatti la repressione è stata continua. Quello che vedo oggi è una cultura abbastanza povera che subisce la realtà della mafia ridotta a fenomeni estorsivi, taglieggiamenti, episodi ben diversi da quei drammi del passato. La situazione, insomma è cambiata. Continuare a parlare di Cosa nostra come se fosse il centro dell’universo-mafia mi sembra un discorso anacronistico.
Si dice che la mafia ha cambiato pelle, si è evoluta. I suoi tentacoli si sono espansi anche a nord. Si può parlare di vittoria della mafia?
Questi sono argomenti che ritornano ciclicamente sulle pagine dei giornali. Spesso escono fuori storie che nuove non sono. Se si fossero fatte ricerche più approfondite si sarebbe scoperto che già da anni ci sono state operazioni che hanno dimostrato gli interessi della ‘ndrangheta al nord. Penso alle tante operazioni degli anni 90 delle procure di Reggio Calabria o di Milano. Operazione le notti dei fiori di San Vito, Nord-Sud, Zagara, Kaulon, Aspromonte, Stilaro. Alla fine i personaggi che tornano sulla luce della ribalta sono gli stessi che abbiamo arrestato vent’anni fa. Scontano 10 anni di carcere, escono e nel frattempo hanno anche fatto carriera. Negli anni 70 l’infiltrazione della mafia ha riguardato Cosa Nostra ed i clan catanesi, quando ha esteso i propri affari a Torino, a Milano o a Firenze. Basti pensare a Epaminonda o Jimmy Miano a Milano o i Mazzei a Torino. O alle “decine” di Cosa Nostra sempre a Milano o a Roma, individuate da Giovanni Falcone. Bisogna invece concentrarsi su due tematiche. Le infiltrazioni mafiose in altre aree geografiche sia europee che globali e di mafie multietniche. Nel primo caso quindi, come ho già detto, i fatti non sono nuovi. I mafiosi sono sempre gli stessi che appena escono dalle patrie galere continuano a fare quello che sanno fare: delinquere. Le infiltrazioni mafiose in altri paesi europei sono state rilevate da oltre vent’anni. Nel ’95 noi scoprimmo un imprenditore calabrese legato alla famiglia dei Sibaritide che ha finanziato una campagna politica in Germania. A Stoccarda vi era un “Locale” della n’drangheta. Luigi Facchineri ha trascorso la sua latitanza in Costa Azzurra, protetto dai locali Ndranghetisti. Nessuna novità, quindi, ma solo falsi scoop mediatico e giudiziari. La ‘ndrangheta poi è leader nel narcotraffico? Anche questa non è una novita’. Già nei primi anni ’90 boss come Vincenzo Mazzaferro, avevano sostituito i Caruana (agrigentini) nei rapporti fiduciari dei principali cartelli colombiani. La mafia multietnica, termine coniato dal Ros, negli ultimi anni è il risultato di sinergie tra le diverse mafie e della globalizzazione. Masse di esseri umani si spostano in cerca di vite migliori. I paletti posti dalle norme interne, sui c.d. flussi, finiscono con agevolare solo le mafie. In grado di organizzare spostamenti illegali: la “tratta”. Altri criminali si spostano con mezzi propri. Ma le vittime si indebitano con le organizzazioni e ne diventano succubi. Il carcere poi è una vera e propria università del crimine, ha fatto il resto. E lì che criminali stranieri si incontrano, familiarizzano. Nell’ora d’aria discutono di nuovi affari criminali, accrescono e scambiano il loro Know How. Non a caso a Palermo, nel 2000 infatti era stata stilata un’importante convenzione Onu sulla criminalità transazionale siglata da 187 paesi, che poneva l’accento sul traffico dei migranti, attraverso 2 protocolli aggiuntivi . Le forme di business interetniche non sono solo date dal narcotraffico ma abbiamo migranti adoperati nel lavoro nero e il fenomeno della prostituzione. La prostituzione però è stato un settore guardato dalla nostra mafia con una certa repulsione, sempre per un senso di” profondo quanto ipocrita rispetto”, di natura religiosa. In realtà in questi anni hanno sfruttato l’indotto come la logistica, locali notturni e alberghi, attraverso, ovviamente i prestanome.. Lo sfruttamento è rimasto appannaggio delle stesse etnie di appartenenza. Oggi il tema nuovo con cui bisogna confrontarsi è la criminalità informatica. E le mafie sono in grado di sfruttare le tecnologie informatiche per reati tradizionali come, ad esempio, il riciclaggio. Ma pensiamo anche ai giochi on line.
Lei ha avuto modo di conoscere e di lavorare a fianco di Giovanni Falcone. Che ricordo ha di lui?
Ho avuto modo di lavorarci due anni intensa. L’ho conosciuto negli anni forse peggiori della storia professionale, quando si sentiva isolato ed inviso proprio dai suoi colleghi. E direi che per fortuna poteva contare sul pieno appoggio delle forze di polizia. Di molti di noi si fidava più che di tanti suoi colleghi magistrati. Era un tipo molto diffidente, a volte scontroso. Il suo umore credo che fosse dettato dal momento delicato che stava vivendo. A Palermo ero poco appoggiato e si era creato un rapporto assai teso con Giammanco che si avvaleva di suoi pupilli. Tutti comunque erano giovanissimi all’epoca. Ricordo che Pignatone era un giovane brillante molto capace e veloce nelle decisioni, e divideva l’ufficio con Lo Forte. Ma Giovanni Falcone oltre che preparato, aveva una grande esperienza. Tutte le indagini, quando ero a Corleone, le ho fatte quasi esclusivamente con lui. Soprattutto il filone legato a Totò Riina. Ricordo che indisse una riunione a cui erano presenti Carabinieri, Criminalpol Polizia, ad esempio Mori e Manganelli. Ovviamente c’ero anch’io. La discussione verteva proprio su i filoni investigativi racchiusi nelle indagini nate da Corleone e sulle decisioni da prendere su i diversi compiti. Io da solo e da Corleone, dove comandavo la compagnia, non potevo occuparmene. Bisognava passare al setaccio quei finanziamenti a pioggia che arrivavano da Roma e la figura controversa di Pino Mandalari, commercialista, che noi controllavamo già da un anno con le prime microspie, a capo di un reticolo di logge massoniche. Si era rivelato un personaggio di spicco all’interno di Cosa nostra. Ma quando Falcone è stato trasferito a Roma, i diversi fascicoli sono stati riassegnati da Giammanco a diversi magistrati, altri non sono stati proprio assegnati, e noi rimanemmo senza deleghe di indagini, nonostante fossero tutti filoni molto importanti. Come quello sugli appalti il cui filone più importante era seguito da De Donno. Noi invece avevamo delle microspie da un personaggio inedito di Corleone, il cui nome sarebbe stato fatto solo 10 anni dopo dai pentiti. Lì venivano decisi con i nipoti di RIINA una serie di subappalti. Quindi effettuavamo i controlli sui cantieri per provocarne le reazioni. E nei controlli erano scivolati su una buccia di banana che avrebbe potuto svelare il meccanismo di infiltrazione negli appalti. Ascoltammo uno dei nipoti di Riina dire: “ questi errori non si devono fare. Lo vogliamo capire che qua siamo legati con una catena e che e cade uno….”. La frase per me era chiarissima mentre per i P. M. no
L’esperienza di infiltrato come l’ha cambiata umanamente?
E’ l’ultima attività svolta prima di lasciare l’arma. Mi ha coinvolto tantissimo. Ti cambia umanamente, ma questo già accade facendo l’investigatore. Cogliere l’aspetto umano nei criminali, capire come entra in competizione e come si comporta con uno che pensa come lui: un criminale. All’inizio ti guardano con sospetto ma poi si aprono con te come farebbero con un amico. La natura umana non è quella che noi ci immaginiamo e questa esperienza ti porta ad arrivare ad una conclusione: Il giudizio etico deve rimanere separato dal giudizio penale. Ci sono persone che per circostanze della vita scelgono determinate strade, scelgono di violare le leggi. Ed i processi intervengono su questo piano. Ma noi comunque non possiamo arrogarci il diritto di giudicare eticamente il prossimo. Non è tutto bianco o tutto nero. Capisci che ci sono persone cattive che non incappano in procedimenti penali o perché se la sono sempre cavati o per pavidità. Ci sono persone che pur avendo commesso reati, intimamente cattive non sono. Insomma male e sentenze penali di condanna non sempre coincidono.”
Claudia Benassai