Era il 1978 ed una legge, quella che porta il numero 180, entrava in vigore. Erano passati poco più di cento anni da quell’unità d’Italia che sembrava essersi compiuta nel 1861 e della quale oggi celebriamo il 150° compleanno. Ma qualcosa mancava affinché si potesse dire davvero completato il processo risorgimentale. E non erano il Trentino o la Venezia Giulia, o lo Stato pontificio. Non solo. Una “regione” intera mancava all’appello. Una regione che non esisteva fisicamente o politicamente come tale, che non aveva statuti o riconoscimenti, ma era fatta di migliaia di persone invisibili agli occhi degli altri, agli occhi della giustizia, agli occhi di quel paese riunificato. Invisibili fino a quella legge 180/78.
Questa legge, detta anche “legge Basaglia”, dal nome dello psichiatra che l’ha fortemente voluta, decretava la chiusura dei manicomi, perché era labile il confine tra la normalità e la follia, e perché «i veri pazzi – come disse lo stesso Antonio Basaglia – erano fuori». E così, tutte le persone che fino ad allora erano rinchiuse negli ospedali psichiatrici, nascoste da se stesse e dagli altri per proteggerle e per proteggere tutti coloro che stavano al di fuori delle mura dei manicomi, erano finalmente visibili. Quella legge, oltre a rivoluzionare le cure psichiatriche, restituiva agli individui la possibilità di un esistere, di un esserci nel mondo che fino ad allora era stata loro negata. E conferiva loro quella cittadinanza italiana, sogno dell’esperienza risorgimentale, che il paese sembrava avesse conquistato definitivamente in quel lontano Ottocento, ma che, in realtà, solo in tempi recenti ha davvero trovato compimento. Ovvero, quando questa nuova e popolosissima “regione” è stata in qualche modo restituita al suo paese e annessa alle 20 già esistenti.
Ed oggi, a 150 anni di distanza dall’impresa garibaldina e a soli 33 dall’approvazione della legge Basaglia, mentre monito è lo “stare uniti”, ci chiediamo se questa “regione” venga davvero considerata parte del nostro paese, o se è rimasta a sé stante, isolata.
Ci chiediamo se e come coloro che hanno riconquistato la loro cittadinanza italiana si sentono e vengono considerati davvero membri di quest’Italia Unita, e se realmente quest’ultima può definirsi tale.
Per trovare risposta abbiamo, per qualche giorno, “respirato” il Centro Camelot di Messina, una di quelle strutture di supporto previste dalla legge del ’78, e ascoltato il parere del suo responsabile, il dottore Matteo Allone.
Una volta entrati nel Centro, ogni dettaglio riesce a raccontare il cambiamento. Sono gli oggetti che lo arredano i primi a parlare e a testimoniare quanto avvenuto dopo la chiusa degli ospedali psichiatrici. Sono tutti oggetti che provengono proprio da lì, da quei luoghi di reclusione e di dolore, ma che, alla pari delle persone, hanno ritrovato la loro libertà, e la possibilità di essere molto altro e molto meglio di ciò che, in quei manicomi, erano costretti ad essere. I complementi d’arredo sono i primi a suggerire la transizione dal periodo precedente alla legge 180 a quello successivo.
Ed ecco che il grigio delle cassettiere, degli armadi, dei comodini di metallo si tinge, nel vero senso della parola, di colori nuovi, ritornando a vivere. O forse, iniziando a vivere per la prima volta.
Così come ritornano o iniziano a vivere tutti gli individui, fino al 1978 rinchiusi nei manicomi.
Ed il termine “cittadinanza” dice molto su quello che è stato determinato dalla legge Basaglia. Quegli individui rinchiusi negli ospedali psichiatrici non erano neanche più considerati cittadini, privati di qualunque diritto. Anche di quei principi di personalità sui quali ci si era concentrati nella
stesura della Costituzione, poiché la cura non era mai rivolta all’individuo in quanto tale, ma alla malattia mentale, o a ciò che veniva inteso per malattia. E, dunque, la concezione del malato come cittadino qualunque, con i propri diritti, veniva meno.
«Quando si approva la legge 180 – afferma Matteo Allone – il malato di mente (così come viene definito in maniera a volte troppo semplicistica) riacquista la sua dignità, alla stregua di un malato di qualunque altra patologia» e riacquisisce quei diritti, alla pari di ogni cittadino italiano, che in passato gli erano stati sconosciuti o negati. «Riacquista una cittadinanza che – continua Allone – va oltre il valore legislativo del termine e che consiste nel riconoscimento di tre diritti essenziali ed universali, libertà, dignità ed amore, senza i quali la stessa parola si svuota di significato».
Cittadinanza vuol dire, allora,«riconoscimento di significato e di dignità dei propri diritti anche nella diversità». È questa la vera unità, d’Italia e non solo: la possibilità e la capacità di stare assieme andando al di là delle diversità. Un’unità che, probabilmente, non può dirsi finora del tutto raggiunta. Non se ancora esistono differenze e ostilità tra Nord e Sud, non se ancora si ha paura del proprio simile, e ancor di più del diverso. In qualunque cosa consista questa diversità. Diverso è il “normale” per il “malato” e viceversa. Diverso è chi ha un modo di vivere, di essere, di pensare differente dal proprio. Diverso è considerato, troppo spesso, anche solo chi ha un altro colore della pelle o un’altra conformazione del viso.
« Si ha paura di ciò che non si conosce», dice Matteo Allone. «Bisogna, allora, affrontare le paure, che dipendono dalla conoscenza, dall’imparare a conoscere l’altro, oltre che sé stessi». E a volte è proprio attraverso l’altro che si arriva a conoscere molto più di sé. «L’incontro con l’altro, e in particolar modo con il “diverso”, mette violentemente noi stessi dinanzi alle nostre inadeguatezze e ai nostri limiti».
E se spesso questa unità nella diversità, come testimoniano i recenti accadimenti in Giappone, ha bisogno della sofferenza estrema per realizzarsi e coinvolgere l’umanità intera, a volte può realizzarsi in universi, in stati, molto più piccoli come i centri di accoglienza, tra i quali il Camelot.
Dove la condivisione del nuovo e del dolore porta a socializzare, dove vengono accolte svariate tipologie diagnostiche, «per vedere se ci si può comprendere e se è possibile stare insieme al di là della diversità». «All’interno di un centro come questo – dichiara Allone -ognuno impara a conoscersi, ad accettare il proprio modo di essere e a non vivere l’altro come un nemico. In questi luoghi ciascuno impara a non giudicare o prendere in giro l’altro», e dunque a non temere il ghigno o la risata altrui. Ciò, suggerisce, inevitabilmente, un interrogativo. Se ciò è possibile in queste piccole comunità, fra quei soggetti che vengono considerati “non normali”, perché non può esserlo anche al di fuori di esse?
In questo consiste l’Italia Unita che oggi si festeggia, nell’unione nelle differenze e nel rispetto di queste diversità. Ed è questa la conquista di quella “regione” restituita al suo paese nel ’78.
Perché se da un lato, convenzionalmente, unità d’Italia vuol dire che dinanzi alla bandiera tricolore ciascuno di noi mette da parte le differenze e si emoziona allo stesso modo, sentendosi appartenenti alla medesima terra; dall’altro lato, in quest’ottica nuova con la quale oggi guardiamo all’unità, con i cambiamenti determinati dalla legge 180, per tutti quegli ex pazienti degli ospedali psichiatrici, essere cittadini italiani vuol dire che, se prima appartenevano ad un istituito, adesso la città, il mondo intero gli appartiene.
Ma soprattutto, finalmente, essi appartengono a loro stessi. Ad essi appartiene il rispetto e la consapevolezza di sé, il riconoscimento del bisogno di un aiuto, privo di obbligazioni e quindi di violenza. La possibilità di scegliere, casomai guidati, ma mai costretti, cosa è meglio per sé.
E, perché no, appartiene loro la libertà di scegliere di “perdersi nel mondo, lasciando che le cose li portino altrove, non importa dove; applicando alla vita i puntini di sospensione, svincolandosi dalle posizioni”. Per guardare alle cose con quella geniale follia, che, come canta il brano di Morgan, “a volte sembra l’unica via per la felicità”.