La lotta alle mafie lasciata agli eroi

«Frequento la Sicilia da prima degli attentati a Falcone e Borsellino, e ormai è diventata un po’ la mia seconda patria». Karl Hoffmann è corrispondente per la radio e la televisione tedesca in Italia, e dal 1991 lavora nel nostro Paese e in Sicilia. Nel corso di questi ventidue anni ha accumulato un’esperienza sulla nostra storia e cultura che filtra con l’occhio – un po’ critico, un po’ benevolo, e un po’ perplesso – del tedesco che ama l’Italia, si rammarica per i suoi problemi, ma non capisce fino in fondo perché abbiamo questa predisposizione naturale a fare del male alla nostra terra.

Partiamo proprio dalla sua corrispondenza per i media tedeschi. Ricorre oggi il ventunesimo anniversario della strage di Capaci. Agli occhi di un corrispondente, cosa stupisce di più delle commemorazioni delle vittime di mafia che ogni anno si celebrano in Italia?

Stupisce soprattutto la grande partecipazione anche emotiva di tantissime persone, non solo alle ricorrenze che sono legate alla mafia, ma anche a quelle dovute a incidenti, tragedie, morti. Credo che ci sia un continuo aumento, che da un lato può essere positivo, ma dall’altro lato ci ritroviamo a dover ricordare ogni giorno un fatto tragico di questo Paese. Raccontare invece un’Italia triste, commemorativa, che ha sempre a che fare con tragedie non è sempre facile, perché i tedeschi la vivono come una meta allegra e solare.

Il procuratore generale di Torino, Gian Carlo Caselli, ha di recente dichiarato che la lotta alla mafia sembra uscita dall’agenda politica. Secondo lei l’Italia ha mai messo tra le sue priorità la lotta alla criminalità organizzata dopo che si è spento lo shock delle stragi del 1992-93?

Io penso che si debba vedere la lotta alla mafia come delle ondate. Nei momenti critici, di emergenza, sicuramente lo Stato ha cercato di fare di più per contrastare la mafia. E poi, quando le emergenze sono finite, i temi sono diventati diversi, le problematiche del Paese sono cambiate, e allora anche la lotta alle mafie è venuta meno. Però ci sono altre forze nel Paese che hanno iniziato e continuato a contrastarle – parlo di Libera o di Addiopizzo – che sono veramente delle novità che combattono le mafie senza mai abbassare la guardia. Lo Stato non ha sicuramente mai dato il meglio di sé. Se guardiamo poi l’evoluzione anche nella trattativa tra Stato e mafia, proprio a ridosso della morte di Falcone e Borsellino, dobbiamo dire che lo Stato non ha mai fatto pulizia fra sé e la mafia.

Due anni fa lei ha partecipato a un incontro che si intitolava “La responsabilità degli eroi: combattere la mafia”. La lotta contro Cosa nostra è stata troppo spesso delegata agli eroi?

Si, questo è un Paese che pensa di non poter vivere senza eroi, e delega loro troppe cose. Gli eroi, purtroppo, fanno poi sempre una brutta fine. Non può essere questa la soluzione dei problemi di questo Paese e soprattutto non può essere la soluzione del problema dell’illegalità diffusa in molte parti del Paese. Non parlo solo della mafia, ma di tutte le altre forme di illegalità. Non può essere sempre un eroe, un magistrato, qualcuno che è buon esempio di legalità e di senso civico e morale a fare tutto il lavoro. Deve insediarsi nella testa di molte persone che ancora non ce l’hanno questo senso della comunità e della legalità. Altrimenti l’Italia avrà problemi che si accavallano e si aggiungono ad altri gravi problemi come il lavoro, il problema sociale. Alla fine il vero problema non si risolverà mai a fondo e resterà una palla al piede di questo bellissimo Paese che deve combattere con una grande concorrenza di Paesi in Europa che funzionano meglio, non devono sconfiggere la criminalità organizzata e sono più competitivi.

Lei ha seguito per i media tedeschi il processo a Giulio Andreotti – sette volte presidente del Consiglio, più volte ministro, senatore a vita – che si è concluso con una prescrizione per mafia fino al 1980. Come mai in Germania c’era così tanto interesse per questo processo?

Perché Andreotti era il simbolo dell’Italia, un politiche che più di ogni altro ha reso più stretto il legame tra la Germania e l’Italia ed è stato anche apprezzato in Germania per il suo pragmatismo nei rapporti con gli Stati esteri. Però è anche stato il simbolo dell’Italia di cui non ci si poteva fidare, per i tedeschi. E quando c’è stata l’accusa per mafia i tedeschi hanno pensato che fosse la conferma di quello che avevano sempre sospettato: una connivenza tra politica e mafia.

Il caso Andreotti è anche emblematico per capire come il mondo dell’informazione italiana tratta il tema delle collusioni tra mafia e politica. Andreotti è stato riconosciuto colpevole ma prescritto, eppure il messaggio che è passato è che fosse stato assolto. Com’è potuto accadere?

È stato possibile perché la parte della stampa che cerca di trattare questi argomenti con precisione è sempre stata minoritaria, e lo è tuttora. I giornali sono poco diffusi, anche quelli che – come Repubblica o Il Fatto Quotidiano – hanno riportato con precisione la notizia della prescrizione di Andreotti. La massa degli italiani si informa su altri media, dove non conveniva riportare la notizia correttamente o dove, quando tutti dicevano che Andreotti era assolto, non c’era un giornalista che se la sentisse di andare contro corrente. E Andreotti non è il solo personaggio noto italiano a godere di questa grazia da parte dell’informazione sui suoi processi.

Lei non l’ha nominato, allora lo nomino io. Berlusconi ha fatto degli arresti di boss e latitanti un motivo di vanto e un elemento per sostenere che la lotta alla mafia dava i suoi frutti. Ma secondo lei basta arrestare i vertici delle cosche per rendere mafia, camorra e ‘ndrangheta meno pericolose?

Io mi attengo ai fatti: nell’entourage di Berlusconi ci sono vari personaggi in forte odore di mafia, e non lo dicono solo vecchi comunisti. Nello schieramento di Berlusconi ci sono più persone che hanno problemi con la giustizia per mafia. Ce n’è anche nella sinistra, ma di più e di maggiore spessore sono attorno il Cavaliere. Io penso che localmente non si sia mai veramente cercato di fare pulizia, e questo dà forza alla mafia. Al livello nazionale si fanno leggi, provvedimenti per contrastarla e per passare per grandi eroi, ma quando si guarda nelle regioni dove sono attive le mafie succede ben poco. Poi la giustizia non è provvista di strumenti processuali forti per giudicare i mafiosi in modo efficiente e questo fa sì che i processi vadano per le lunghe e le mafie si possano rigenerare. Non credo che questa politica potrà permettere di estirpare le mafie.

D’altronde da 150 anni si parla di contrastare le mafie e mai di sconfiggerle.

Bisogna distinguere i primi 130 anni dall’unificazione del Paese e la nascita delle mafie dagli ultimi vent’anni. A parte il periodo, in cui forse la mafia era davvero repressa, sono stati questi ultimi anni che sarebbero dovuti bastare per cambiare tutto, sia l’approccio alla legalità, sia l’organizzazione politica e giuridica rispetto alle mafie. Molo è stato fatto ma buona parte di quello che è stato fatto è stato reso inutile e denigrato. Lei ha citato prima Gian Carlo Caselli che è uno dei magistrati con i massimi meriti per la sua lotta contro la mafia, e si trova in contrasto con altri che hanno più a cuore di mettere la propria persona in mostra che contrastare la criminalità organizzata. Queste cose sono difficili da capire e da districare per la gente, che poi si ritira e lascia la lotta alla mafia a chi di dovere, che poi si ritrova solo nella lotta.