La malattia penitenziaria: tra ingiustizie e disagi sociali.

Grate simil carcere
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La malattia penitenzia è quella che affligge il nostro Paese, dove il carcere è vista come unica soluzione allo scontare le pene giudiziarie. Un’intervista a Carmelo Musumeci, attivista per i diritti carcerari, per comprendere cosa avviene dentro le Mura.

“La nostra Costituzione parla di pena non parla mai di carcere”

“La nostra Costituzione parla di pena non parla mai di carcere”. Questa affermazione proviene da Carmelo Musumeci, membro della Comunità Papa Giovanni XXIII, scrittore, attivista per i diritti dei carcerati, e condannato all’ergastolo ostativo. Una frase che è simile ad una sentenza, un monito, che lo vede favorevole alle ultime dichiarazioni della Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che ha sollevato la questione sul ruolo del sistema repressivo dei penitenziari italiani e alle pene alternative.

Il mondo del carcere, sfortunatamente, non è conosciuto a pieno dalla società: non si comprendono le dinamiche della reclusione, non si conoscono i diritti dei carcerati, non si vuole conoscere l’effettivo ruolo del carcere.  La società italiana vuole soltanto la punizione del colpevole. In tale maniera, il nostro popolo si è spesso dimenticato i principi della nostra Costituzione e dell’articolo 27 che recita “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione.” Questa volontà rieducativa è scomparsa nel mettere in pratica le indicazioni della carta costituente che, come dice Musumeci, “è il nostro faro”.

“Carcere? Strugge, distrugge famiglie, affetti. E mi riferisco anche a piccoli reati. Entra in carcere. Poi esce e perde il lavoro e la famiglia. Per questo ho affermato che produce criminalità.” 

Attualmente, l’Italia dispone di 189 penitenziari, i detenuti sono 53.509. Un numero che supera di ben 2730 persone il numero massimo di carcerati che può accogliere il sistema, ovvero di 50.779 soggetti. (FONTE: Ministero della Giustizia, 2020). L’opinione pubblica richiamerebbe la necessità di ampliare le patrie galere o di edificarne delle nuove, con sistemi di sorveglianza migliori. Invece, questa non è la soluzione secondo Carmelo Musumeci: “Bisogna che cambi la cultura, la mentalità della società”.

I dati dimostrano che la finalità rieducativa del sistema penitenziario italiano è fallita. Il 68% dei detenuti torna a delinquere (Fonte: Il Sole 24 ore, 2018). La causa principale della recidività sono le difficoltà, non solo sociali, che incontrano i carcerati appena usciti dai penitenziari.

Difatti, a differenza di quanto venga sostenuto da diversi ambienti sui social, alla fine del periodo di detenzione, il Ministero della Giustizia chiede ai carcerati il pagamento del mantenimento carcere. Per pagarla i detenuti si trovano a cercare lavoro o, qualora abbiano beni, a vedersi pignorate tutte le proprie proprietà. La vita post-reclusione, però, non da tante possibilità lavorative ad un ex carcerato. Il proprio passato ha un peso consistente nelle selezioni lavorative. Per tale motivo, si cade in un circolo vizioso: si è costretti a ricorrere alle amicizie fatte in carcere per superare le difficoltà economiche.

La rieducazione, inoltre, è qualcosa che è vista di cattivo occhio soprattutto quando riguarda l’istruzione. Nonostante l’ordinamento italiano incentivi la formazione culturale e professionale dei detenuti mediante la creazione di corsi appositi per raggiungere un’educazione scolastica maggiore.

“Il carcere è terrorizzato dal prigioniero che studia, sogna, legge e scrive.”

Questa affermazione è spiazzante. Normalmente, coloro che posso realmente godere dei diritti di seguire i corsi e le lezioni sono soltanto i detenuti che non sono posti a regimi carcerari di Alta Sicurezza o 41bis. In questi due regimi, i soggetti alla pena non possono usufruire del sistema scolastico, se non previa richiesta di sostenere gli esami, o dei poli penitenziari universitari.

“Sono entrato in carcere con la quinta elementare,” dichiara Musumeci “ed un amico di penna mi fece la proposta di iniziare a studiare. Io gli chiesi come avrei dovuto studiare se non mi arrivavano i libri. E lui mi rispose <<non trovare scuse: se vuoi studiare, ti strappo le pagine dei libri e te le mando per lettera.>>. Così, spesso le lettere mi venivano bloccate perché avevo la censura e pensavano che ci fossero dei messaggi nei compiti di matematica. Poi per fortuna, mi è stato tolto il 41 bis, ma sono stato in regime di massima sicurezza, e quindi non mi sono mai confrontato con un insegnante. Queste difficoltà incredibilmente mi hanno fatto passare quell’anno e mezzo di isolamento tremendo.”

Carmelo Musumeci ha continuato a studiare anche dopo: nei 25 anni di reclusione, ha conseguito tre lauree: in scienze giuridiche, giurisprudenza e filosofia.

“il carcere è terrorizzato dal prigioniero che studia, sogna, legge e scrive. Poi, diventa un detenuto scomodo. Quando inizi a conoscere i tuoi diritti, lotti affinché vengano applicati. Allora, il carcere ha più paura dei detenuti che studiano: dunque [l’istituto n.d.r.] fa istanza, richieste al magistrato di sorveglianza. Il carcere non vuole che diventi buono. Perché se diventi buono, non riesce ad istituzionalizzarti. Studiando ti si forma un’etica, una crescita interiore: se il tuo compagno difronte necessita di cure, e l’infermiere non viene. Tu inizi a fare la battitura blindata per farlo venire. Ti rivolgi al magistrato per vedere applicati i tuoi diritti. Quando andavo dal Direttore del Penitenziario, lui mi guardava un po’ beffardo. Accadono questi meccanismi. Lo studio ti dà le armi per lottare in maniera pacifica. Le mie lauree in giurisprudenza, scienze giuridiche e filosofia sono servite per lottare per i miei.”

La sanità penitenziaria: tra simulazione e realtà.

Il sistema carcerario, con il suo Codice, si trova in una situazione lacunosa anche per quel che riguarda il sistema sanitario interno.  L’articolo 11 della legge sull’Ordinamento penitenziario (L. 354/1975), stabilisce che ogni istituto sia dotato di “servizio medico e servizio farmaceutico rispondenti ad esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati e che disponga di almeno uno specialista in psichiatria”. Questo vuol dire che ogni penitenziario necessita di un armadietto con i farmaci, la presenza continuativa di un medico e degli spazi adibiti a infermeria.

Nelle carceri, però, la malasanità è più sentita. Soprattutto, in periodo pandemico, la diffusione del coronavirus negli istituti è stata vasta: basti pensare al cluster del carcere di Reggio Emilia, dove ben 74 detenuti su circa 300 sono stati riscontrati positivi al covid-19.

“Il detenuto malato”, dice Musumeci “da fastidio: è preso per un simulatore. Ma anche chi simula ha dei problemi. Per esempio, chi si taglia le vene, lo fa per attenzioni: si taglia le vene, va in infermeria, il dottore gliele ricuce e parla.”

Per questi motivi, ammonisce Musumeci “il carcere è il posto più illegale di qualsiasi altro luogo”. Illegale perché i diritti dei detenuti non vengono rispettati totalmente. L’Italia, infatti, è stata plurime volte citata in giudizio dinanzi la Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU). Basti pensare alla sentenza pilota del memorabile Caso Torreggiani del 2013. Un verdetto emanato all’unanimità della Corte di Strasburgo che condanna l’Italia per non aver rispettato l’Art.3 della Convenzione CEDU e per non aver rispettato i diritti dei detenuti. Il caso Torreggiani denuncia il vasto problema del sovraffollamento delle carceri.

Inoltre, il carcere diviene posto illegale quando non solo condanna la persona nella restrizione della propria libertà di movimento, perché chi commette un reato va fermato, “ma una volta messo in carcere” come dichiara il Dottor Musumeci “poi deve iniziare la guarigione.

“Chi è l’ergastolano che non pensa al suicidio per uscire dal carcere?

La già citata malattia del carcere italiano diviene cronica nei regimi di Alta Sicurezza (AS) e di 41bis. In questi due casi, il detenuto è soggetto al completo isolamento: non ha contatti con altri detenuti, non ha privacy, viene collocato in celle putride, non ha permessi, è soggetto alla continua censura, spesso non può usufruire dei servizi bibliotecari, essenziali per l’accrescimento della cultura e per far scorrere il tempo.

Chi è soggetto a tali regimi, spesso, è stato condannato a pene prolungate come l’ergastolo. In Italia, la fine pena:mai viene comparata come la soluzione dignitosa e umana alla pena di morte.

Secondo il nostro ordinamento sono previsti due tipi di ergastoli: quello “normale”, per permette al detenuto di godere di permessi dopo il 25esimo anno di detenzione, e quello ostativo. Nel nostro Paese, gli ergastolani sono 1784 (FONTE: Ministero della Giustizia, 2020). Circa 1800 persone sanno che usciranno per la pima volta dal carcere all’interno di una bara da morto. Una fine che riecheggia spesso nelle menti degli ergastolani nei primi giorni di carcere, specialmente per coloro che entrano soggetti a regimi di AS e 41bis.

“Chi è l’ergastolano che non pensa al suicidio per uscire dal carcere? Io ci pensavo spesso, però avevo la mia compagna e i miei figli. Soprattutto la mia compagna mi ricordava che ero un punto di riferimento affettivo e quindi anche per amore io continuavo a vivere. Quindi, mi sentivo condannato all’ergastolo e, anche per amore, a vivere. Le giornate non passavano più.”

Carmelo Musumeci

“Il carcere migliore è quello che non costruiranno mai”

L’anatomia penitenziaria è complessa, tra circuiti e regimi, il significato di ogni parola ha un confine che non può essere irriconoscibile per chi vive fuori le mura. Il senso di comunità, di società è certamente più forte tra coloro che condividono gli stessi spazi, e stringono un rapporto in un posto del dolore. La solidarietà diviene, così, valore portante delle Mura circondariali.

Il carcere non si limita a reprimere la libertà di movimento. Annulla anche la libertà di affetti stabili, la libertà di amare. Spesso, i detenuti vengono trasferiti, senza una reale motivazione, in prigioni distanti dal luogo di residenza. In questa maniera, i permessi esterni, le visite dei parenti divengono impossibili. La distanza si fa sempre maggiore tra il dentro e il fuori. Il detenuto, oltre all’emersione del senso di colpa, vede emergere l’odio nei confronti della stessa società.

“Dovremmo fare come in Svezia”, dichiara Musumeci, “dove la popolazione è terrorizzata dal fatto che i detenuti escano peggio di prima. Quando uno esce, dovrebbe essere sostenuto, dovrebbe trovare un lavoro, dovrebbe trovare un’abitazione. Il problema è risolverlo a livello politico: bisogna informare la gente che loro sperperano denaro pubblico per aumentare la criminalità. Certe organizzazioni criminali non si sconfiggono solo militarmente, ma anche culturalmente. Ecco, purtroppo non si fa niente. Il carcere per funzionare dovrebbe farti uscire il senso di colpa. Il senso di colpa è la pena più terribile. Molti parlano di vittime dei reati. Le vittime dei reati non vogliono vendetta ma che i loro carnefici si rendano conto del male che hanno fatto. […]Niente mi leva il senso di colpa nei confronti della società, nel non aver contribuito ad una società migliore, nei confronti dei miei familiari, delle mie vittime. Anche io sono vittima essendo stato colpito da sei pallottole. La mia infanzia, il carcere minorile non possono essere un attenuante.

In “Nato colpevole” [n.d.r. il libro pubblicato da Musumeci] io dico che sono nato colpevole, ma ci ho messo del mio per diventarlo. Il problema è anche la società. Io penso che la letteratura è l’anima di un paese. Purtroppo, nel nostro paese manca una letteratura carceraria. Io scrivo per farla conoscere. Inoltre, la gente è ferma nei telefilm americani dove le carceri sono diverse. Da noi la società conosce ben poco di ciò che accade.”

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