La mia voce contro la mafia

Di Denise Fasanelli

 

Giuseppe -Pippo- Giordano è un ex ispettore della DIA (Direzione Investigativa Antimafia) di Palermo, in prima linea nella lotta a Cosa Nostra negli anni Ottanta e Novanta, la mafia l’ha respirata fin da piccolo, assistendo alle consegne di agrumi con il camioncino di suo padre al boss della zona, con tanto di baciamano. E’ cresciuto fra la taverna dei propri genitori ed il mare di Acqua dei Corsari, piccola frazione del comune di Palermo, la prima venendo da Messina. Entrato in Polizia, è passato dalla Sezione antirapine, dove guidò la Squadra dei ‘falchi’ contro la microriminalità, alla Sezione investigativa in breve tempo. Trasferito dal Capo della Mobile, Ignazio D’Antone, su richiesta dello stesso Ninni Cassarà dirigente della Sezione.

La Conca d’Oro è stata per anni il terreno di caccia ai malviventi per lui, le borgate di Villabate, Misilmeri, Ficarazzi, Ciaculli, Santa Maria di Gesù, fino a Sferracavallo le ha percorse in lungo e in largo arrivando a conoscerne ogni piccolo angolo. Ai tempi del maxiprocesso si parlava di questo ‘sbirro’, nell’ambiente mafioso lo chiamavamo ‘baffo’. Era stato Giovanni Di Giacomo a raccontare un episodio a Gaspare Mutolo come dichiarerà Mutolo stesso. Quando venne fermato e poi arrestato da Giordano, erano gli anni ottanta, Di Giacomo era arrivato a proporgli un pacchetto di soldi da 150 milioni. Lui rifiutò. “Stu curnutazzu di sbrirro ca un si vosi piggghiare i picciuli, u nu pottimu accattari”.

E’ stato compagno di pattuglia, nella Squadra Mobile di Palermo, di Lillo Zucchetto, ucciso all’inizio degli anni Ottanta; ha collaborato con Beppe Montana durante la ricerca di Michele Greco, detto “il Papa”e con Ninni Cassarà, entrambi uccisi dalla mafia. E’ stato accanto a Giovanni Falcone durante gli più complessi della lotta alla mafia. Ha collaborato con il giudice Borsellino fino al 17 luglio 1992, due giorni prima dell’attentato in via D’Amelio.

Oggi è in pensione, è un nonno felice dai candidi baffi. E’ riuscito a trasmettere la sua passione, il suo ‘mestiere’ anche all’interno del nucleo famigliare. Gira l’Italia, andando nelle scuole a parlare di criminalità organizzata e legalità, della propria esperienza. Come un fiume in piena si racconta con voce decisa, risponde ai giovani con pensieri ordinati. Fa nomi e cognomi, date e luoghi. Lui, nel rispondere si sente un costruttore che, un mattone alla volta, erige la casa della legalità. Anche quando qualche impedimento gli rende impossibile essere fisicamente presente, si arma di carta e penna e fa sentire la sua voce.

Ed è da questo suo ‘non tacere’ che è nato un libro “La mia voce contro la mafia” (Coppola ed.), nel quale ho cercato di raccogliere i racconti di Pippo Giordano, senza mai scordare il suo essere ‘sbirro’, testardo e tenace. Il suo metodico approccio ai fatti ed il suo ‘chiacchierare’ con i giovani tutt’altro che retorico. Uno sbirro dalle poche parole, uno bravo ad ascoltare e abituato a ‘fare’ senza tante chiacchiere. Detesta le ‘pupiate’ e non ama sentir chiamare ‘eroi’ quelli che sono stati i suoi amici, colleghi. “Erano persone come tutti noi, la parola ‘eroe’ non deve servirci come scusante davanti alla possibilità di essere incisivi nella lotta alla mafia. Sono morti perché sono stati lasciati soli.”

Asciutto e conciso, non per questo privo di sentimenti. Ed anche questi ho voluto descrivere, costretta ad ‘indagare’ quello che è un uomo riservatissimo. Ho cercato di essere delicata su fatti tremendamente tragici e, ancor più, su quell’angolo di vita privata che nonostante tutto è riuscito a salvaguardare. Frammenti del suo passato come istantanee del suo modo di essere. E poi c’è il presente, quello di cui siamo tutti chiamati a prenderci cura, come ci ricorda anche lui. Il futuro è oggi, lo costruiamo con le nostre azioni nel presente e nessuno dovrebbe sentirsi escluso.

Nei suoi ricordi di bambino c’è la storia delle stragi di Palermo: si parte da Ciaculli, 30 giugno 1963, ma si arriva a Capaci e via d’Amelio. In mezzo c’è una mafia ormai trasformata (gli stessi mafiosi si dichiarano apertamente antimafia) e un’Antimafia politico culturale “all’amatriciana’’, spesso parolaia e carrierista, che Cosa Nostra l’ha conosciuta, quando va bene, solo dalla lettura dei giornali e dei libri: la mafia e l’antimafia nella stagione della Trattativa. (La mia voce contro la mafia – dalla prefazione di Giuseppe Lo Bianco)

Cosa Nostra, negli anni ottanta aveva assassinato Dalla Chiesa, Pio La Torre, Mattarella, funzionari di Polizia, ufficiali dei Carabinieri e semplici agenti. Lo Stato, apparentemente disinteressato, sembrava essere sordo al grido di dolore che echeggiava nell’intera Sicilia. Poi si è scoperto che addirittura trattava con i mafiosi, o almeno alcuni uomini di Stato.  “Giocavamo una partita impari, una partita truccata, il cui risultato era già in tasca a qualcuno. Dopo la strage di Capaci con Borsellino – racconta Giordano – avevo iniziato, seppure con dolore un percorso insieme: volevamo dare ‘voce’ a Giovanni Falcone e agli uomini della sua scorta, purtroppo, il giudice non ebbe modo di vedere in manette gli autori della strage di Capaci. Intanto, vent’anni di ordinaria bugia coprono la verità su via D’Amelio.”

Tornando ai giorni nostri, sul processo di Palermo che non deve dimostrare la trattativa, già accertata da due sentenze della Cassazione e da quella della Corte d’Assise di Firenze, bensì l’eventuale colpevolezza di 10 imputati che il Gup Morosini, confermando la fondatezza delle indagini, ha rinviato a giudizio, Giordano appare ‘uno dai piedi per terra’.  Nutre forti perplessità che una qualsivoglia verità illuminerà gli anni più terribili della nostra Repubblica. Ha smesso di aver fiducia in questo Stato, ma soprattutto, ha esaurito le lacrime: le ultime le ha versate in via D’Amelio. E proprio per quelle lacrime vorrebbe leggere qualche ‘verità’.

“Sino ad ora i politici si sono limitati ad offrire scarsi strumenti per l’accertamento della verità: enunciazioni sterili e privi di successive iniziative. È ovvio che tutto questo non può che far male. Anzi malissimo, – continua Pippo – perché soltanto i cittadini si sono resi conto che in via D’Amelio, nel luglio del 1992, si è consumata una delle più aberranti e vergognose pagine della nostra Repubblica”.

Testardamente, non si è mai ritirato, non si è arreso. Non ha mai voluto abbandonare idealmente i propri amici, i propri morti. In prima linea in ogni attività. Protagonista, suo malgrado. Ex sbirro, oggi ‘educatore alla legalità’ nelle scuole, sa bene che  l’Istruzione è l’arma più potente per cambiare il mondo. Non c’è rabbia, non c’è voglia di vendetta nelle sue parole. Soltanto sete di verità, necessità di riscatto. Poteva tacere, godersi i nipoti, i figli e la vita da pensionato. Ritirarsi, smettere di attraversare il paese in lungo e in largo riaprendo ogni volta quelle ferite. Invece, di tacere proprio non ne vuole sapere. Non ha nessuna intenzione di smettere di fare memoria e denunciare. Memoria che non va confusa con ‘ricordo’ e nemmeno con ‘commemorazione’. Memoria al fine di riaccendere la partecipazione.

 “La mafia ha bisogno di un ambiente dove l’evasione fiscale sia facile, dove i capitali sporchi possano muoversi con facilità; un ambiente corrotto, sottosviluppato economicamente e/o civilmente, dove i poteri siano tutti riconducibili alle regole della politica e l’informazione asservita, dove imperino irresponsabilità sociale, pressappochismo intellettuale, scarsa razionalità, faziosità ideologiche, neutralità etica e un complesso insieme di condizioni e valori”. Pertanto “Non è necessario creare uno scenario totalmente opposto, perfetto. Basta fare solo alcuni importanti passi avanti in ciascuna di queste direzioni, e si creeranno – partendo proprio dalle cose più semplici – argini e barriere insuperabili, anticorpi di straordinaria efficacia”.

 (Dalla Chiesa N., Arlacchi P., La Palude e la città. Si può sconfiggere la mafia, Mondadori 1987)