Cento giorni a Palermo (1984) ha tre protagonisti: uno, il più evidente, è senza dubbio il generale Dalla Chiesa; il secondo, ovviamente, è
Già nell’incipit, a morire sono Boris Giuliano, Cesare Terranova, Lenin Mancuso, Piersanti Mattarella, Gaetano Costa e Pio
Tutti uccisi.
Del resto, può cominciare diversamente un film che tratta di Mafia?
Ma la carneficina non finisce qui: i colpi di mitra, le revolverate, il sangue, le lacrime, guidano l’intera pellicola, come se si trattasse di un film bellico.
E invece è una Via Crucis – ma Ferrara evita di creare un’agiografia, anche se non rinuncia ad una certa retorica – in cui si ripercorrono i cento giorni (nella realtà centoventisei) che vanno dalla nomina a Prefetto di Palermo di Dalla Chiesa (interpretato da un magistrale Lino Ventura alla sua ultima interpretazione) alla sua uccisione insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro (Giuliana De Sio).
Ferrara, da sempre impegnato sul piano civile, tenta di ricostruire gli avvenimenti cercando di dar conto delle trame più o meno oscure che hanno portato alla fine di quella speranza che ha accompagnato i siciliani onesti e che era incarnata proprio da Dalla Chiesa, vero emblema vivente di probità e integrità morale e civile.
Certo, il film non appare totalmente compiuto, ingabbiato nella sua verbosità e nel suo schematismo, ma di certo riesce nell’intento di denunciare l’incapacità (volontà?) dello Stato Italiano di dare un effettivo sostegno all’opera del Prefetto.
Un atto d’accusa, quindi, contro quelle istituzioni che mandano al massacro i propri uomini, i migliori, lasciandoli da soli ad affrontare un compito rischioso ma decisivo per la difesa della legalità e della democrazia.
Lo Stato allora appare come un serpente che si mangia la coda: mostra di voler cambiare le cose, ma poi, in concreto, non fa nulla affinché le cose cambino.
Questa logica gattopardesca la si desume dai fatti mostrati e da alcuni dialoghi (la moglie che dice al generale che forse l’hanno mandato in Sicilia perché, essendo lui il migliore, questo sarebbe servito da alibi): il prefetto sembra essere l’unico a credere che sia possibile sgominare cosa nostra. Il finale del film, e
È la logica dei ruoli ad essere capovolta. Paradossalmente è proprio il crimine organizzato, in antitesi allo Stato, ad apparire come una macchina perfetta, incapace di compiere errori fatali, una macchina composta da ingranaggi ben oliati e compatti nel raggiungimento di un obiettivo.
Dalla Chiesa non può che morire: il suo corpo e quello della moglie verranno crivellati dai colpi di diversi sicari. La mafia vuole certezze.
Ma questa manchevolezza, questa assenza delle istituzioni che spingono fino all’estremo sacrificio i propri uomini, da cosa è dettata?
Il dubbio percorre l’intero film e si palesa nella chiamata in causa dei servizi segreti, del caso Sindona, delle infiltrazioni mafiose all’interno della Prefettura.
Allora è chiaro: la vera lotta, lo Stato, la sta imbastendo contro se stesso.
Del resto, se si passa brevemente in rassegna
Già nel 1962, Francesco Rosi, con Salvatore Giuliano, tentava di far luce sulla morte del famoso bandito e sulle connessioni tra Stato, Mafia e indipendentismo siciliano che stanno dietro la strage di Portella della Ginestra – connessioni che Segreti di stato (2003) di Paolo Benvenuti recupera, riuscendo, nonostante l’impianto fortemente didascalico, a far luce sulle motivazioni politiche e mafiose retrostanti al sanguinoso eccidio.
E sempre Rosi, trasponendo Il contesto (1971) di Leonardo Sciascia, ambienta il suo Cadaveri eccellenti (1976) in una Sicilia (mai presentata come tale, ma riconoscibilissima) ambigua e misteriosa, sottolineando, anche in questo caso, gli immancabili legami tra Istituzioni e Cosa Nostra, con l’aggiunta, questa volta, di un terzo componente: l’eversione nera.
L’anno successivo è la volta di Io ho paura (1977) di Damiano Damiani, che sembra riprendere i motivi centrali del film di Rosi: un poliziotto, interpretato da Gian Maria Volonté, dopo aver assistito impotente alla morte del giudice a cui fa da scorta, viene assegnato ad un altro magistrato colluso con
Siamo negli anni settanta e il cinema si premura di palesare ciò che forse sfugge ai più o che i più fingono di non vedere. È un cinema di denuncia, che cerca di ribellarsi ad una realtà ambigua, sanguinaria, senza scrupoli, dove ideologia e onore fungono da paravento per la sete di potere e di denaro.
Damiani e Rosi continueranno a muoversi su questo filone anche nei film successivi, il primo con L’avvertimento (1980), storia di mazzette e omicidi, il secondo con Dimenticare Palermo (1990), dove un aspirante sindaco di New York si trova costretto a scendere a patti con
Negli anni ottanta, con Tangentopoli alle porte, è la corruzione il fulcro su cui ruota il rapporto tra politica e criminalità organizzata: nessuno fa niente per niente.
Sempre del 1990 è il terzo atto della saga di Francis Ford Coppola sulla famiglia Corleone: Il Padrino- Parte III (The Godfather: Part III). Qui ad essere messo in evidenza, al di là dei temi centrali dell’intera trilogia, sono i legami tra Mafia italo-americana e poteri forti di casa nostra: Stato e Chiesa.
Gli anni novanta, inevitabilmente, cambiano in qualche modo carte in tavola: le stragi di Capaci e di Via D’Amelio lasciano un segno incancellabile sull’intera nazione e il cinema non può che risentirne.
Giovanni Falcone (1993) di Giuseppe Ferrara ne è forse l’esempio più immediato, un istant-movie che, come il film di Rosi su Dalla Chiesa, narra le vicende del giudice Falcone in terra siciliana. Sempre Ferrara, nel 1994, con Segreto di Stato, attacca il S.I.S.De., presentalo come servizio segreto più o meno deviato che “vanta” legami con Cosa Nostra e l’eversione di destra.
Con Un eroe borghese (1995), anche Michele Placido, alla sua terza regia, si avvicina ai temi della corruzione e della relazione Mafia-Politica, mettendo in scena la vicenda di Giorgio Ambrosoli, ucciso da un killer mafioso per conto di Michele Sindona, il banchiere di Cosa Nostra che, insieme a Roberto Calvi e allo scandalo P2, è al centro di un altro film di Ferrara: I banchieri di Dio – Il caso Calvi (2002).
La mafia è bianca, di Stefano Maria Bianchi e Alberto Nerazzini (2005), è invece un reportage sulla gestione della sanità in Sicilia che, con l’ausilio dei filmati originali delle operazioni delle forze dell’ordine, porta avanti la tesi – chiara sin dal titolo – che
Il divo, di Paolo Sorrentino (2008), del resto, ripercorrendo la carriera politica di Giulio Andreotti Toni Servillo), mette in evidenza proprio il lato oscuro dello Stato italiano giocando la carta dell’ironia tagliente e irriverente (esemplare, in tal senso, la scena del bacio tra l’ex presidente del Consiglio e il boss Totò Riina).
Cosa Nostra è quindi, almeno dagli anni sessanta in poi, un tema privilegiato, se non inevitabile, del cinema di denuncia italiano (e non solo). Chiaramente tale tema è stato declinato in vari modi e generi: si va dai film polizieschi che escludono qualsiasi intento civile alle serie tv di successo che in qualche modo tentano di educare alla legalità.
Ma sono proprio i pochi film appena citati a tentare di assolvere il compito, difficile ma indispensabile, di testimoniare e denunciare l’esistenza di una zona grigia che, almeno dal dopoguerra in poi, connette Istituzioni e criminalità organizzata.
Rivedendoli oggi, alla luce delle cronache recenti legate alla cosiddetta trattativa Stato-Mafia, ci si rende conto che, in fondo, per anni, siamo stati cittadini di un Stato responsabile, almeno quanto la sua controparte, dei bagni di sangue che hanno segnato il nostro paese.
Sono tutti quei morti, caduti nel tentativo di svelare, sconfiggere e sradicare un potere oscuro e insidioso, vittime di uno Stato assente – o forse fin troppo presente -, che noi tutti abbiamo sulla coscienza e con i quali dobbiamo fare i conti.