La norma della “pazzia” che ignora l’uomo

La normalità è un’idea soggettiva, che si caratterizza come modello culturale in relazione al tempo e al contesto in cui si vive: “la realtà della vita quotidiana è organizzata intorno al qui del mio corpo e all’adesso del mio presente”[1]. Compreso questo, ci rendiamo conto di quanto sia difficile spiegare cosa sia la follia, e purtroppo spesso si finisce con l’identificarla come qualcosa lontana da noi, difficile da comprendere, da accettare e che può suscitare paura nella maggioranza. Risulta evidente come l’esistenza per queste persone non sia mai facile, contrassegnata da sofferenza, ma anche da speranze e da progetti. Questi ultimi per essere realizzati necessitano di una cultura della persona che le accetti pienamente, con le sue debolezze e le sue risorse, che abbia sull’individuo uno sguardo di comprensione ed accoglienza. Infatti emerge l’esigenza di una prassi che includa un concetto più ampio e che consideri non soltanto il contenimento del disturbo, ma, in positivo, tutti quegli aspetti esistenziali come la casa, le relazioni sociali, il lavoro, lo svago. Tutti elementi questi che concorrono a determinare non solo una situazione di salute mentale, ma anche di salute e di benessere in senso più generale. Forse la paura del matto è il risultato di una paura che gli è stata inferta, aperta come una ferita, di una paura che diventa buio. Ecco che nel buio, nel delirio, l’uomo  diventa caso, problema, patologia, richiesta di aiuto, presa in carico, competenza, utente: un utente si trasforma in più utenti; un paziente in schizofrenico; mentre noi tutti vorremmo sempre essere semplicemente: donna, uomo, ragazza, ragazzo, un giovane, una giovane.  

Nello specifico del contesto possiamo affermare che “la Psichiatria, per conoscerla, è necessario affrontarla direttamente, ma soprattutto amarla: così come per realizzarla è necessario privilegiare il rapporto con le persone malate, non rifuggire da loro ma avvicinarle convinti del valore della loro realtà interna ancorché malata. […] Non è possibile trattare la Psichiatria senza chinarsi a osservare fenomeni umani quali la sofferenza, il patimento, la nostalgia, la speranza, il tempo vissuto e in particolare il vissuto dell’avvenire, in altri termini senza toccare da vicino l’essere umano che soffre”[2]. Ecco come determinare una differenza positiva: imparando ad ascoltare linguaggi non conosciuti, vedendo oltre le apparenze, ascoltando partendo dalla propria soggettività, ma senza confondersi con le altre soggettività.

Lo studio della vita quotidiana si incentra sul soggetto, sulle relazioni che stabilisce con familiari, vicini, amici, colleghi e, su tutte quelle pratiche, rappresentazioni e simbolizzazioni per mezzo delle quali organizza incessantemente il suo rapporto con la società, con la cultura e con gli eventi. In quest’ottica “la realtà viene costruita socialmente”[3], determinata dalle definizioni, o meglio rappresentazioni, soggettive e collettive, continuamente scambiate all’interno del contesto sociale. Spesso infatti, la rappresentazione sociale, sorta come strumento esemplificativo del concetto, tende ad essere percepita e condivisa socialmente come la vera realtà del concetto stesso.

La teoria delle rappresentazioni sociali è stata al centro di numerosi studi. Per primo, Durkheim conia il termine di rappresentazioni collettive, discostandole e differenziandole dalle rappresentazioni individuali, rivelando l’aspetto simbolico della vita sociale. Le rappresentazioni sociali sono delle entità pressoché tangibili; esse vanno a identificare il legame tra opinioni, atteggiamenti, stereotipi e pregiudizi nell’ambiente sociale in cui si formano[4]. Nella maggior parte dei casi, quando si parla di stereotipo si fa riferimento a quelli sociali, ossia a credenze condivise da più persone che, spesso, peccano di erroneità o falsità. Proprio perché uno stereotipo è la risultante di complessi processi di esemplificazione condivisa della realtà, non è detto che esso sia una sua esatta ri-produzione. Oggi “è cambiato il “modo di produzione” […] ma anche la produzione non produce solo merce, produce insieme rapporti sociali, umanità […] ossia una “nuova cultura”: modificando antropologicamente l’uomo”[5] proprio perché “non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”[6].

Molto spesso si dimentica che ci sono gesti per cui non sempre si può avere una spiegazione facile, e talvolta neppure quella difficile può essere trovata perché “non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono”[7]. Ecco perché la sfortuna di essere afflitti da disagio mentale è, accompagnata dall’essere, ogni giorno, vittima e bersaglio di tutta una serie di pregiudizi e false credenze che prendono piede e forza dall’ignoranza, dalla mancata informazione; così una conseguenza più devastante è il rischio di solitudine, sia del paziente sia per i sui familiari. Perché “la malattia e il dolore sottopongono l’esperienza ai ritmi vitali del corpo, permeando l’esperienza quotidiana con la loro presenza deformante, focalizzando la nostra consapevolezza sul corpo come oggetto. […] I ritmi sociali dell’esperienza vengono sconvolti e plasmati”[8]. Ecco perché bisogna sostenere l’idea che “la follia non va curata: va realizzata. Va permesso alle persone di agire e di comunicare la loro esperienza e il senso delle relazioni che instaurano fra di loro. I vissuti non vanno modificati ma recuperati alla vita, alla conoscenza, alle speranze di tutti gli esseri umani”[9], il problema sorge quando “si continua a parlare di malattia mentale come di qualcosa di scientificamente dato”[10] e  purtroppo “si continua a considerare il malato come un semplice oggetto di terapia”[11].

Forse a questo punto dovremmo arrivare ad una conclusione. Ma questo ci mette in difficoltà. La parola ‘fine’ in un discorso come questo non è mai possibile. Le storie di uomini e donne continuano a vivere per conto loro e ci sarebbero tante cose ancora da dire.

            Forse niente è più legato al ‘qui e adesso’ come il lavoro psichiatrico. Questa è la cosa più difficile da accettare, perché ogni vittoria, ogni soluzione non è mai definitiva, anzi parte carica di dubbi e di incognite. E anche questo è contrario alle aspettative della gente e degli stessi operatori del settore, che ogni volta si aspettano che le cose cambino in modo radicale e che ci sia una svolta decisiva. “Tutte le forme sociali cambiano, si trasformano ed è impossibile fissarle in una “forma”, così come il ritratto rappresenta quell’istante e non il prima o il dopo, così una fotografia che fissa il momento in cui viene scattata, percepisce l’attimo che subito cambia”[12].

            Forse, per molto tempo, il manicomio ha rappresentato questa svolta, che se non era terapeutica, definitiva lo era senz’altro, dal momento che certi processi che avevano interessato una persona, da una certa data in poi si svolgevano come se questa persona non esistesse.

Il reimmettere la persona nel processo della vita, anche quando sono stati attivati dei cambiamenti nel contesto escludente, è sempre un salto nel buio. È la realtà del salto nel buio che è difficile da accettare nonostante si è fortemente convinti che la Psichiatria non appartiene alla vita e la vita non appartiene alla Psichiatria.

Tutti noi, nonostante viviamo in un Paese che va avanti all’insegna dell’approssimativo, abbiamo dentro un mito di efficientismo che ci fa sognare treni che arrivano in orario, servizi pubblici che funzionano, ecc. In questa aspirazione rientra anche la soluzione sociale e relazionale o psicanalitica, ecc. della follia. Il che, se può essere teoricamente corretto, in pratica si scontra con la realtà, le cui variabili non posso, e neanche debbono, essere controllate. “In altri termini, la società determina per quanto tempo e in che modo vivrà l’organismo umano. Questa decisione può essere istituzionalmente programmata sia per mezzo di controlli, sia per mezzo della legge. La società può mutilare e uccidere; anzi è proprio nel suo potere di vita e di morte che si manifesta il suo definitivo controllo sull’individuo”[13]. Queste variabili attendono al varco la nostra soluzione, che, ammesso che sia corretta, con esse deve fare i conti. E i conti, qualche volta tornano e qualche volta, molte volte, non tornano. Bisogna allora, ancora una volta, pazientemente, ricominciare da capo.

La Legge 180 del 1978 ha tirato fuori dalla gabbia molte persone, mettendo fine a giorni sempre uguali, senza privacy e senza dignità, creando non una vita normale, ma una vita migliore possibile in base alle condizioni. Ecco la sostanza della Legge 180: aprire i manicomi, assicurare servizi specifici sul territorio, sostenere le famiglie, creare percorsi di recupero perché ciascuno, anche il più malato, anche il più irrecuperabile, possa vivere al meglio la propria esistenza. Una prova di responsabilità per tutta la società, perché sicuramente si fa meno fatica a lavare un matto/a con una pompa in gabbia piuttosto che insegnargli/le ad aprire un rubinetto; dà meno disturbo chiudere le grida all’interno di un manicomio che sopportare di vedere qualcuno che porta a passeggio una pianta, o che fa una pernacchia per strada; fa meno paura saperli confinati questi matti che vederli attraversare la strada senza riuscire a immaginare dove stanno andando i suoi pensieri.

È proprio contro questa paura, questo fastidio, questa fatica di confrontarsi e sopportare la debolezza, la malattia, l’imprevedibilità dell’altro che la Legge 180 ha voluto lavorare. Essa nasceva da un tentativo di interpretare un cambio di mentalità. Una cultura in grado di far capire che tutti hanno un loro posto nella collettività può aiutarci a comprendere che tutta la nostra persona, anche la parte più problematica e debole ha diritto di cittadinanza. A pieno titolo. Sempre. Il sogno non è quello di una società utopica, ma di una società civile completa, a tutti gli effetti.

Ovviamente un cambio di mentalità si è avuto, ma in modo incompleto. Il prezzo più alto della riforma è stato sopportato solo in parte dalla società nel suo complesso e ha finito invece per gravare pesantemente sulle famiglie provate dalla fatica.



[1] Peter L. Berger, Thomas Luckmann, La realtà come costruzione  sociale, Il Mulino, Milano 2015, p. 40.

[2] Enrico Smeraldi, Brevi lezioni di psichiatria, Imprimatur, Reggio Emilia 2016, p. 105.

[3] Peter L. Berger, Tomas Luckmann, op. cit., p.13.

[4] Franco Crespi, Il pensiero sociologico, Il Mulino, Bologna 2015, pp. 17-35.

[5] Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane. Il progresso come falso progresso, Einaudi, Torino 2011, p.183.

[6] Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1971, p.5.

[7] José Saramago, Cecità, Feltrinelli, Milano 2010, p.276.

[8] Byron J. Good, Narrare la malattia, Einaudi, Torino 2006, p.201.

[9] Giuseppe Bucalo, Dietro ogni scemo c’è un villaggio. Itinerari per fare a meno della psichiatria, Sicilia punto L, Catania 1990, p.66.

[10] Lionello Calza, Psicologia psichiatria e rapporti di potere, Editori Riuniti – Istituto Gramsci, Roma 1974, p.202.

[11] Ibidem.

[12] Georg Simmel, La moda, Mimesis, Milano 2015, pp. 8-9.

[13] Peter L. Berger, Thomas Luckmann, op.cit., p.226.