di Francesco Polizzotti
Continua a smuoversi la terra in Emilia Romagna. Le scosse di terremoto si susseguono dopo quella forte del 20 maggio scorso che ha mietuto sette morti e migliaia di sfollati. Si muovono le colonne di aiuti e l’Emilia Romagna si ritrova tra l’abbraccio solidale dell’intero stivale.
L’Italia del volontariato si mobilita per le popolazioni del modenese, del ferrarese e delle vicine provincie e prova a recuperare la magra figura fatta con gli aquilani. A tre anni dal disastro L’Aquila è invece ancora lì. Cambia governo e cambiano le modalità degli interventi. Prima gli eventi plateali e mediatici a coronamento di un’azione definita celere e dalle grandi attese, poi il lento declinare della scena e il silenzio sugli schermi.
Testimone di questa triste pagina di cronaca è la giornalista, Maria Luisa Busi che ha fatto la difficile scelta di abbandonare la sua carriera di “mezzobusto” del Tg1, per un sussulto di orgoglio nei confronti di un mestiere facilmente assimilabile agli avvezzi filogovernative. Tassativamente, il Tg non poteva mandare in onda immagini dei ritardi o delle proteste della popolazione abruzzese. Un silenzio mediatico che ha fatto le fortune del centrodestra davanti agli italiani.
Vengono celebrati, invece, i cerimoniali accuratamente pensati dall’ex premier Silvio Berlusconi che, in seguito, avrebbero tradito quegli stessi cittadini e telespettatori stupiti dalla celerità con cui l’allora “governo del fare” sembrava muoversi nei confronti dell’Abruzzo. Regionali stravinte nel 2008 con un nuovo presidente della Regione “amico” a cui affidare i pieni poteri a discapito degli altri enti locali interessati, cade in seguito anche l’avamposto di sinistra alla provincia, guidata fino al 2010 dalla passionale Stefania Pezzopane.
Rimaneva l’incomodo di Massimo Cialente alla guida del comune. La defenestrazione della Busi viene commentata dalla stessa a distanza di mesi con un invidiabile ermeneutica: “E’saltato il tappo. E’ saltato il patto scritto tra i giornalisti e gli spettatori. Le regole ci sono, basta applicarle” dice la giornalista al Festival Internazionale del Giornalismo tenutosi a Perugia lo scorso aprile.
Defenestrazione che si aggiunge ad altre più o meno cicliche quando il centrodestra viene chiamato dagli elettori alla guida del Governo. Già gli ex colleghi Lilli Gruber, Michele Santoro nel 2004 scelsero di manifestare il proprio dissenso con l’elezione al Parlamento europeo nelle liste del centrosinistra. Nel 2009 si aggiunse David Sassoli, oggi capogruppo della delegazione del Partito Democratico nell’ASDE (Alleanza progressista dei socialisti e democratici europei).
La propaganda dei mezzi canonici è spesso veicolo di consenso.
Avere il mezzo più accessibile e allo stesso tempo più invasivo nell’opinione pubblica, significa modulare il pensiero della gente comune e catalizzare il consenso in chiave elettorale su tutto il territorio nazionale. La televisione, nelle fasi storiche in cui serve, diventa la cassa di risonanza di ogni propaganda.
L’esempio de L’Aquila tornerà, infatti, utile nelle aule accademiche delle facoltà di sociologia e di giornalismo, simbolo del populismo mediatico che plagia, trasforma, ribalta i fatti e quasi sposta le mancanze agli avversari politici. Populismo che manca ad esempio al nuovo premier, Mario Monti, le cui contestazioni non sono più un tabù per gli organi di informazione italiani, presenti anche all’interno dei programmi di approfondimenti di tutte le fasce orarie.
Nel programma di grande approfondimento condotto, ad esempio, da Lorena Bianchetti, specializzato in genere in fatti di cronaca e interviste a vip o persone la cui storia meriterebbe l’attenzione del tubo catodico, capita come tale opinionista invitata ad esprimere il proprio parere sui fatti dell’Emilia, attaccava il premier sol perché in sede di stampa aveva detto che “il governo non si era fatto trovare impreparato” e quindi sottolineare l’inadeguatezza di Monti, anche perché farlo sembra essere ormai un ritornello da parte di chi vuole atteggiarsi a portavoce del popolo nell’Italia a guida dei “tecnici”.
Tornando ai luoghi del terremoto, tutto sembra descrivere un paese responsabile e unito nelle sciagure. Gli emiliani stanno vivendo esperienze simili a quella appunto degli aquilani ma anche delle popolazioni del Friuli-Venezia-Giulia e dell’Umbria. Restano paradossalmente ancora aperti i cantieri della ricostruzione de L’Aquila. La new town è ormai una chimera e il campo degli sfollati è ancora lì a testimonianza che nulla è andato come doveva. Il centro storico è disabitato, la giunta si riunisce per amministrare una città che purtroppo non c’è (ancora). Il miracolo della ricostruzione breve, della gestione diretta e con deroga alle leggi da parte del supercommissario, nominato nella persona del Governatore Chiodi ha segnato il passo. In Parlamento è stato ridiscusso il ruolo degli amministratori locali e i comuni saranno di nuovo messi nelle condizioni di gestire direttamente l’emergenza.
Finita l’era Bertolaso, si ritorna alla buona prassi. I sindaci sono i rappresentanti delle comunità e scelgono cosa fare per la ricostruzione, proprio perché rispondono direttamente ai cittadini.
Intanto lo stesso emiciclo ha approvato che il taglio ottenuto dai finanziamenti ai partiti vada alle popolazioni dell’Emilia Romagna. Un gesto catartico per la politica in crisi di credibilità, un gesto finalmente concreto di risorse concrete, un gesto che però mortifica chi quegli aiuti non li ha mai avuti.
Le alluvioni, alla pari dei terremoti sono eventi calamitosi imprevedibili e gli scenari di morte sono indistinti se al fango si sostituiscono le macerie. Nelle alluvioni, c’è da dirlo, si muore forse nel modo più triste immaginabile.
Un tempo era la Lega Nord a dettare l’agenda del Governo, in termini di priorità e risorse. Una compagine becera che ha lasciato al sud poco e spesso con l’assegno da restituire in chiave assistenziale, come se le emergenze potessero essere inserite nei bilanci preventivi dello Stato.
La geografia però la conosciamo bene. Il flusso di aiuti sembra prendere la solita direzione. Ciò non di meno, i volontari delle regioni meridionali sono partiti numerosi per dare una mano d’aiuto ai soccorsi, a rinsaldare l’unità del Paese.