La profonda unità d’Italia

Sono le 8 e trenta di un martedì di marzo, a rendere speciale questa giornata è che rappresenta la vigilia delle festività previste per il 150° dell’ unità d’Italia.

Sorseggio il consueto caffè mentre come al solito ascolto i TG del mattino ma, inaspettata, l’avviso di una telefonata mi distoglie da tutto; è una collega che sta preparando un”pezzo” sul 150° e “conoscendo il mio spirito critico”  chiede di esprimere il mio pensiero in merito.

Resto piacevolmente colpito dalla richiesta, e con immodesto piacere mi pongo al suo favore.

Cos’è secondo le mie esperienze l’Italia? E gli italiani?

Dopo poco istanti mi sovviene un ricordo; una vecchia pagina di un non meglio identificato quotidiano parlava di ITALIANI, 136 italiani, erano tali perché provenivano da diverse aree della nostra nazione, quasi a volerla rappresentare tutta, con mesto orgoglio.

Provenivano da Udine come dalla Sicilia o Calabria, Marche, Sardegna, Puglia, Liguria; rappresentavano l’ Italia, erano 139.

La nostra nazione si apprestava a vivere quei meravigliosi anni del boom economico, circolavano nelle nostre strade le prime utilitarie e la 600 era un desiderio possibile, il livello di occupazione era alto ma, ancora c’era bisogno di un’altra Italia, non qui ma all’estero, per produrre le materie indispensabili alla conduzione delle industrie dell’acciaio; il carbone.

Erano 139, lontani dalla patria, non li univa nemmeno la lingua; tanti dialetti diversi e la mancanza di conoscenza di lingue “internazionali” rendeva quel gruppo incapace di dialogare, ma non gli impediva di sentirsi Italiani, come quegli italiani lì che andavano in auto, che compravano il frigo e che magari andavano a scuola a imparare anche più che l’italiano.

Erano 139 , senza la gioia di un abbraccio quando viene sera, senza nessuno che ti aspetta per sedersi con te a tavola, i loro sguardi solo comunicavano l’abbraccio della comune appartenenza, così lontani da casa erano un “popolo”, sentivano di appartenersi, sentivano di condividere lo stesso destino.

Era l’ 8 agosto del 1956, in una Italia che si lasciava alle spalle le memorie di una guerra lunga e cruenta, di una guerra che aveva visto persino  gli stessi Italiani combattere sino alla morte fra fratelli, e per questo ancora più difficile da dimenticare, c’era chi si organizzava per andare in ferie, magari in 600, cariche di borse, ombrelloni e sedie sdraio.

Era l’ 8 agosto 1956 e il sole era lontano 1072 metri, quanto erano i metri del cunicolo che penetrando le viscere della terra permetteva a questi uomini di raggiungere il carbone da estrarre.

Il carbone per far andare le acciaierie che erano al centro dell’economia, anche italiana, che permettevano di creare posti di lavoro, benessere, ferie.

Era l’ 8 agosto di un’altra nazione, un’altra lingua, gli stessi padroni.

Fuori c’era il sole, in Italia c’era il sole, lì c’era il solito fetido puzzo di piscio. La polvere quel giorno era più densa e rendeva quella poca aria disponibile ancora più greve, e gli uomini nervosi.

Ad un tratto tutto è immobile, le voci si bloccano, gli sguardi si incontrano e poi, un boato, e il sole sembra essere sceso giù, fra le viscere della terra fra il piscio e il sudore, illumina i corpi seminudi di 262 minatori, li avvolge, li stringe, li ruba.

Il sole è sceso in basso, tanto, a milleesettantadue metri per abbracciarli.

La notizia arriverà in Italia solo qualche giorno dopo, un giornale della federazione carbonai Belga titolerà: “ OPERAI ITALIANI vittime di un incidente in una miniera”, ma gli italiani vivono l’agosto del ’56 e la notizia riguarderà solo i familiari, e così l’estero diventa Italia.

il Belgio si ferma, il carbone si ferma, l’acciaio si ferma, il Re raggiunge Marcinelle; la città belga dove si parlano i dialetti italiani.

Quattordici giorni dopo le ricerche verranno interrotte, l’edizione speciale del quotidiano di Charleroi riporta le parole  che ufficializzavano la tragedia:”sono tutti morti”, l’ha detto un uomo con voce fioca ma in perfetto italiano.

Si questo per me è l’unità di ITALIA, l’unità delle migliaia di lavoratori, emigranti, che hanno lavorato in silenzio, sofferto in silenzio, morti senza un cordoglio affinché il processo economico europeo iniziato con una finta battaglia antiborbonica, proseguita con accordi fra futuri governanti e mafiosi e massoni e neoarricchiti permettesse di creare una nazione di cui ancora oggi si discute.

Il TG  è alla fine, racconta di parlamentari al bar durante l’esecuzione dell’ inno di Mameli, è finito il mio caffè, è finita la chiacchierata con la collega, è finita la voglia di festeggiare.