La sua violenza non e’ colpa mia

Non è successo improvvisamente. Non mi sono alzata una mattina e ho capito quello che era successo. No, non è stato così. Ci sono voluti anni e anni e ancora adesso non sono in grado di parlarne, non a fondo, non pienamente.

Quando gli raccontai cosa era accaduto mi spronò a parlarne, a raccontare i dettagli, a guardarlo negli occhi e ammettere che avevo subito un abuso. Le mie frasi erano spezzate, si interrompevano cercando di saltare i dettagli i particolari, volevo che lui lo capisse senza che io fossi esplicita. Non me lo permise. Ripeteva che dovevo parlarne per riuscire ad accettarlo e dovevo farlo guardandolo negli occhi. Senza avere vergogna. Non dovevo essere io a vergognarmi di aver subito un abuso, io ero solo la vittima. Fu una delle cose più difficili che mi capitò di affrontare, ma aveva ragione, solo da allora io iniziai a realizzare cosa era successo. Esattamente 9 anni dopo.

Ma quello che vi voglio raccontare oggi non è la storia dell’abuso che ho subito, ripetutamente per sette giorni consecutivi, non voglio parlarvi delle sue mani sudice sul mio corpo di bambina 13enne, né di quanto ho pianto o della difficoltà di continuare a essere me stessa. Quello di cui vi voglio mettere a conoscenza è il dopo, sono gli anni trascorsi ignorando l’abuso subito, gli anni dell’accettazione e quelli dell’analisi.

Sì, sono stata in analisi per due anni.

Voglio raccontarvi della continua ricerca dell’uomo giusto trovandone a volte anche di violenti. Voglio che sappiate che il peggio non è l’abuso o la violenza in sé, ma ciò che ne deriva. Il cambiamento che subirete, la ferita profonda, il senso di inadeguatezza che vi perseguiterà rincorrendo voi e i vostri perenni sensi di colpa.

La prima volta che raccontai a qualcuno l’abuso subito fu all’età di 21 anni. Prima e dopo ne parlai tante volte, ma mai scesi nei dettagli, erano sempre e solo mezze frasi lasciate in sospeso, per non dare mai o quasi la certezza ai miei interlocutori di ciò che era realmente accaduto. Quella volta segnò per me l’inizio dell’accettazione. Forse può sembrare stupido, forse può sembrare banale, ma a 13 anni non avevo contezza di quello che avevo subito. Non sapevo cosa fosse il sesso, non sapevo cosa fossero violenze o abusi, non immaginavo minimamente che anche chi diceva di volermi bene potesse farmi del male. E quindi rimasi immobile, non scappai, non urlai, non opposi resistenza, non protestai, rimasi lì senza dir niente. Per sette giorni. Senza mai far niente per impedire che l’abuso venisse consumato.

Al termine dei sette giorni cercai di far tornare le cose alla normalità, accantonai quello che era successo, non feci alcuna denuncia e proseguii la mia vita. Ero forte mi dicevo. Avevo superato tutto da sola, senza bisogno di nessuno, del resto che c’era da superare? Io che avevo fatto per impedirlo? Accantonai l’episodio in uno spazietto del mio cuore e continuai a vivere tranquillamente, o quasi.

Quello che non sapevo è che la ferita non si sarebbe rimarginata sola ma che avrei dovuto prendere l’ago, infilarlo nella mia carne e ricucire la ferita. Darmi da fare, affrontare l’abuso.

Con gli anni l’esperienza subita iniziò a spingere e sgomitare prendendosi sempre più spazio nella mia mente, battendo i pugni per essere ricordata, creandomi un profondo senso di disagio. Fin quando qualcuno non mi guardò negli occhi e mi disse che avevo bisogno di aiuto, non potevo superare l’abuso subito da sola.

Non mi detti pace per settimane. Com’era possibile che un episodio accaduto quasi dieci anni prima potesse fare ancora tanto male a me, che avevo affrontato già tutto, che avevo accantonato il disagio e la sofferenza da sola? Ammettere di aver bisogno di aiuto non fu così semplice come potrebbe sembrare. Ma capirlo fu il primo passo per superare il trauma.

Così andai in analisi. Il percorso durò circa due anni, non fu per niente semplice, avere a che fare con il proprio inconscio, riuscire ad ascoltarlo, far riaffiorare tutta la sofferenza sommersa e soppressa mi spezzò quasi in due. Ma buttare fuori tutta la rabbia e i sensi di colpa immotivati tipici di chi subisce abusi o violenza mi fece rinascere. Almeno in parte.

Se da un lato il mio percorso di analisi fu ricco di soddisfazioni dall’altra feci l’improbabile scelta di avere accanto una persona che cercò in ogni modo di buttare a terra ognuno dei mattoncini che a fatica poggiavo. La tendenza di noi donne a fare le crocerossine è ormai purtroppo tristemente conosciuta, ma il mio senso di “dover salvare a tutti i costi qualcuno” era maggiormente accentuato dagli ormai noti sensi di colpa. Più andavo avanti nel mio percorso di analisi, più mi sentivo responsabile della sua continua e costante insoddisfazione nei riguardi del mondo. Non era una persona cattiva, non lo fu mai, era solo una persona fortemente instabile. Mi convinsi che dovevo aiutarlo, che ero l’unica che potesse farlo, vissi questa storia come una missione, come un sacrificio che dovevo compiere per espiare la mia intrinseca colpa di non aver mai denunciato il mio aggressore pur sapendo perfettamente chi fosse.

Il pensiero che poteva fare ancora del male mi perseguitava e mi torturavo al pensiero che stesse vivendo spensieratamente la sua vita mentre io ero distrutta da un episodio accaduto troppi anni prima.

Il percorso di analisi fu accompagnato da questa burrascosa storia che mi autoinflissi e sopportai per tutti i due anni della terapia. Fin quando, grazie a lui, capii che anche io avevo raggiunto il fondo.

Una lite, una delle tante stupide liti che vivevamo quotidianamente sfociò in violenza. Mi prese mi spinse contro il muro tenendomi per il collo e stringendolo. Intervennero dei ragazzi per fermarlo e lui fu costretto a scappare per non correre il rischio di essere picchiato da chi aveva assistito alla scena.

Ringraziai ogni giorno di aver subito quell’aggressione perché fu l’inizio della mia rinascita. Continuai l’analisi per qualche altro mese, mi liberai di quella inutile e dolorosa storia e capii che dovevo ricominciare da me. A testa alta, senza vergogna, senza sensi di colpa.

La persona che abusò di me morì proprio in quei giorni e insieme a lei la paura di tutto quello che avrebbe potuto fare. Non seppi mai di altre azioni disgustose che compì, ma seppi di quelle che aveva compiuto prima di me. Non ero stata l’unica a non denunciare, non ero stata l’unica ad aver taciuto per anni e aver cercato di accantonare tutto. La mia situazione era identica a quella di molte altre donne, ragazze e bambine.

Ancora a volte i sensi di colpa mi stringono il cuore, ma adesso riesco a controllarli e cacciarli.

No, non sono io a dovermi sentire in colpa.

 

AnnaLaura Merlin