Prima, provincia dell’Etiopia, da 30 anni Stato indipendente. L’Eritrea si presenta come uno stato di nuova generazione ma con gli stessi problemi, se non maggiori, degli altri stati africani. I suoi cittadini emigrati in Europa sono tra coloro che hanno richiesto asilo. Tra problemi di natura politica e quelli economici, per i giovani eritrei non vi è possibilità di un futuro libero. L’unica soluzione che si pone dinanzi ai loro occhi è quella di uscire dal Paese. In questo articolo andremo ad analizzare le cause e il destino degli eritrei che decidono di intraprendere la Tratta.
L’Eritrea:
L’Eritrea è popolata da 6 milioni di cittadini, rappresenta la terzultima economia mondiale per l’indice PIL (191 SU 193, Fonte FMI), e soltanto nel 1993 ha combattuto e ha ottenuto l’indipendenza dall’Etiopia. La guerra d’indipendenza condotta dal Fronte di Liberazione Eritreo (FLE) è durata due anni ed è stata affiancata dal Fronte di Liberazione popolare del Tigrè (TPLF). Dopo la cacciata del Negus Rosso dall’Etiopia, in Eritrea è stato indetto un referendum per l’indipendenza. Le votazioni, supervisionate dall’ONU, hanno portato al potere Isaias Afewerki, ancora oggi in carica.
Nei primi 7 anni di governo, Afewerki ha cercato di creare un’unità nazionale basandosi sullo spirito indipendentistico e riuscendo a creare una comunità di emigrati soprattutto in Europa. Difatti, tra gli anni ’70 e ’80, il FLE era stato alleato dei vari partiti comunisti europei poiché aderiva all’ideologia marxista-leninista. Con l’attuazione dell’indipendenza, il FLE, al potere, ha intrapreso politiche conservatrici. Con la guerra dei due anni, tra Eritrea ed Etiopia (1998-2000), il Paese ha aumentato esponenzialmente il debito pubblico per sostenere le spese militari.
Dal 2000, anno dell’accordo di Algeri per il cessate il fuoco, Afewerki ha imposto un regime di sviluppo lavorativo basato sull’esercito: tutti gli uomini dai 18 anni ai 70 anni sono chiamati a servire nell’esercito. Prima dell’esame di stato, i diplomandi vengono sottoposti ad un addestramento militare. Lo stato ha il diritto di indicare ad ogni diplomato l’attività lavorativa più consona da svolgere i base al voto di maturità. L’impossibilità di una libera scelta lavorativa e l’obbligo del servizio militare, rappresentano due fondamentali motivi per i quali molti giovani decidono di lasciare il proprio Paese.
La svolta del 2018:
Dopo diciott’anni dall’accordo di Algeri, l’ascesa al governo etiope di Abiy Ahmed Ali ha portato la pace tra le due nazioni. L’Eritrea, dunque, nell’arco di questi due anni, ha beneficiato del commercio con la vicina Etiopia, una prosperosa economia dell’intero Continente. L’arrivo della pandemia da Covid-19 ha intensificato il potere del governo di Afewerki, il quale ha autorizzato soltanto lo svolgimento delle attività militari, tra le quali l’addestramento dei diplomandi.
Ultimo evento significativo è rappresentato dall’attuale conflitto tra il governo etiope e la regione del Tigrè. Afewerki ha deciso di schierare varie truppe per dimostrare che l’Eritrea è un Paese solidare nei confronti della vicina Etiopia, sperando anche in una futura alleanza militare.
La tratta:
La tratta è un luogo fuori dal tempo e dallo spazio. La vita dei migranti è nelle mani della sorte. Ogni singolo istante può cambiare la tua vita. Come ha raccontato ai nostri microfoni Tareke Bhrane, esponente del Comitato 3 ottobre (fondato affinché naufragi come quello del 3 ottobre 2013 non si verifichino più), nato in Eritrea, oggi cittadino italiano, “da quando sei in Sudan, tu diventi un oggetto. Sei una scatola di pomodoro. I trafficanti decidono dove ti mettono, decidono cosa ti devono fare: o essere stuprato, o essere messa in cinta, o venduta. A volte ti rivendono più volte, e ti fanno tutto quello che vogliono. Il loro obiettivo è quello di farti arrivare a Tripoli, dove dovrai pagare e aspettare l’imbarco.”
I trafficanti, coscienti che per gli eritrei non vi è la possibilità di tornare in patria, decidono di trattarli come un bottino. Difatti, ogni tappa della tratta rappresenta un costo aggiuntivo e tendenzialmente più caro rispetto quello dei migranti di altre nazionalità. Un ritorno in Eritrea per volontà o delle autorità del Sudan o di qualsiasi agente governativo eritreo significherebbe una condanna per la famiglia ancora nel Paese: i membri della famiglia verrebbero licenziati dagli incarichi pubblici e successivamente potrebbero rischiare di finire in carcere. Invece, il rimpatriato sarebbe giudicato come disertore e condannato all’ergastolo, oltre che a torture nelle varie carceri.
Il giornalista Alessandro Leogrande nel libro “La Frontiera” racconta esplicitamente le torture ai quali sono sottoposti i disertori della patria. Torture che hanno uno stretto legame con la storia dell’Italia: difatti, sono le stesse che i nostri coloniali praticavano sui carcerati. Hanno anche nomi italiani: il gesù cristo, l’otto, il ferro. Dinanzi ad un futuro certo e lugubre, si capisce bene perché gli eritrei non possono tornare indietro.
La deviazione:
Nel 2009, il “decreto sicurezza Maroni” del governo Berlusconi ha segnato una deviazione della tratta. I respingimenti dei barconi verso le coste libiche e il successivo incarceramento dei migranti hanno costretto i trafficanti a condurre i migranti verso Israele, passando per il rischioso ed infinito Sinai, per la remota possibilità di essere riconosciuti come rifugiati politici e godere delle rotte umanitarie dell’Onu verso i Paesi del Nord America o dell’Europa Settentrionale.
Le vittime di questa nuova tratta sono state maggiormente gli eritrei. Il costo era troppo alto e difficilmente le famiglie riuscivano a pagare. Così, chi non pagava diventava vittima dei trafficanti: la maggior parte delle volte si finisce morti dopo un trapianto di organi che verranno trasferiti al mercato nero.
Chi, invece, non riusciva ad ottenere l’asilo in Israele, viva come clandestino affrontando ogni giorno il rischio o di finire in carcere o di essere espatriato in Uganda, abbandonando una volta per tutte la speranza di un futuro migliore.
In Italia…:
“Chi arriva in Italia rappresenta solo il 5% di quelli che partono”. Il dato ci è stato fornito da Tareke Bhrane che, attraverso il lavoro del Comitato 3 ottobre, è riuscito raccogliere varie testimonianze riportando i numeri dei gruppi di partenza dai vari Paesi. Gli eritrei, in Italia, continuano ad essere perseguitati dal governo da cui scappano.
Gli agenti governativi eritrei, quando vengono a sapere di un connazionale fuggito dal Paese, lo rintracciano anche infiltrandosi nelle varie comunità di migranti nelle strutture occupate dai migranti. Appena identificato, al “disertore” vengono poste due possibilità: o pagare una quota dello stipendio annuale che si riceve in Europa al governo eritreo, o la famiglia, ancora nel Paese d’origine, verrà arrestata.
“Una regola che si deve sapere” dice Bhrane “è mai dire chi sei, da che zona vieni, qual è il tuo cognome.” In questa maniera, spiega Tareke Bhrane, una persona potrebbe vivere con un compagno di viaggio senza mai conoscere realmente chi è.
Per gli eritrei, dunque, la tratta non si completa con lo sbarco avvenuto in Italia, ma continua finché non si ha un passaporto o una cittadinanza di qualsiasi Paese europeo. Un atto che si pone come fondamentale per lasciare alle spalle le persecuzioni del governo eritreo.
I decreti sicurezza:
Come nel 2009 il “pacchetto sicurezza Maroni” ha cambiato le sorti di molti migranti, nello stesso modo i decreti sicurezza Salvini hanno variato in maniera decisa la normativa della macchina degli sbarchi e dell’accoglienza.
Nell’ottobre del 2020, il governo Conte Bis ha varato una nuova normativa in materia di accoglienza che stroncano la parentesi storica voluta dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini. Tareke Bhrane, oltre ad aver fondato il Comitato 3 ottobre, ha lavorato per molti anni nella macchina dell’accoglienza come mediatore linguistico e culturale, per il suo attivismo sociale ha ricevuto una medaglia al Summit dei Premi Nobel della Pace di Roma nel 2014. Per questo motivo, l’intervista sulla condizione degli eritrei è continuata con una domanda sul cambiamento di rotta voluto dal governo nazionale.
“Penso che si buon inizio. Però, ad oggi, in Italia, dagli ultimi vent’anni, manca un coraggio politico. Manca un modo di gestire i problemi. Noi parliamo dei problemi con il mal di pancia, perché si ha paura di mettere la faccia e si ha paura di affrontare queste tematiche per varie cose. Già dal 4 ottobre 2013 (n.d.r.) si è voluto mettere un segnale, però bisogna avere una visione a lungo termine per risolvere il problema. In altri Paesi Europei che ricevono il triplo di migranti lo fanno bene. Il nostro è un Paese di transito. Nei Paesi che accolgono più migranti vi è un’accoglienza perfetta. Invece, qui l’emergenza fa affari e fa comodo a tutti”.