Le processioni sono fusione di sacro e profano, soprattutto nei piccoli paesi: arrivano le bancarelle, la confusione, i giocarelli, i botti e la càlia, le preghiere e le reliquie, i fiori e la musica. La Vara a Messina è come nei piccoli paesi, solo un po’ più caotica, rumorosa, complessa e colorata. Anche le polemiche sono identiche, solo un po’ più variegate: la banda, i canti, la chiusura delle vie, il servizio di pubblica sicurezza, lo spettacolino in piazza, gli ambulanti abusivi, i pochi soldi, i botti “scarsi” ed il prefetto che rimane in terrazza, il sindaco in maglia rossa anziché blu ed il questore fantasma, l’assessore straniero estasiato e l’acqua – non quella santa, ma in bottiglietta – scomparsa, la potatura degli alberi e la spazzatura del giorno dopo.
Una machina votiva alta più di 13 metri per 8 tonnellate di peso che ad ogni centimetro percorso ondeggia e fa ruotare i putti intorno ad un sole paffuto, tirata da un migliaio di uomini e donne scalzi, in fila tenendo strette le due gomene di canapa. Centodieci metri di bianco e celeste, di nonni e nipoti tenuti stretti per mano, di padri che controllano le figlie alla prima esperienza. Sacro e profano tra le corde tese, una preghiera ed uno sfottò in dialetto, tra sguardi rivolti al cielo in adorazione ed altri occhi in cerca di telecamere o flash. «Scusa, ce la fai una fotografia? Dove le mettete?». Famiglie extracomunitarie al bordo della strada con mazzi di fiori bianchi da donare alla “Mamma” – così in molti chiamano la Madonna -, una donna con il rosario che scende sul pancione stretto tra le sue braccia, il bimbo sulle spalle del padre per vedere meglio, i compagni di scuola di ritorno dal falò. Alcuni la chiamano tradizione, altri invece folklore per tingere di cortesia un pensiero poco amabile. Ma «’a Vara», come ogni processione di paese, non è altro che lo specchio di una città, fatta di luci ed ombre, di gente semplice e professionisti, di devoti e scettici, di chi ha studiato e chi è andato a lavorare, di chi ha visto i fasti della città dopo la guerra e chi solo decadenza, di chi paga le tasse e chi paga il pizzo, di chi veste una divisa e chi può vedere la processione solo in televisione, di chi fa la raccolta differenziata e chi getta il pacchetto di sigarette dal finestrino, di chi urla «Viva Maria» e chi fa quasi una sfilata. Se ogni città ha le sue case popolari ed i suoi quartieri residenziali, le sue miserie e le sue nobiltà, è in processione che ci si incontra, per devozione, abitudine o curiosità, e ci si divide.
Ed in processione può anche accadere che una statua si inchini al peccatore, come accaduto ad Oppido Mamertina o tra i vicoli di Ballarò a Palermo, come accade ancora troppo spesso. Soste strategiche per onorare i boss mafiosi, già pubblicamente scomunicati da Papa Francesco, che hanno acceso l’attenzione della Chiesa e delle Istituzioni anche su altri importanti eventi religiosi tra Sicilia e Calabria.
La Vara messinese per fortuna si inchina soltanto al profano, o alle istituzioni, con le soste davanti al Palazzo del Governo ed al Comune. Qualcuno malignamente ipotizza sia dovuto soltanto al tragitto, che attraversa il centro città e non “altre” zone. Eppure la riflessione sull’intreccio tra religiosità e mafia non è nuova in riva allo Stretto. Da qualche anno si è tornati a parlare di presenze tra le corde della Vara, “rivoluzionando” il comitato organizzativo – ed in realtà cambiandogli solo il nome -, promuovendo un non ben specificato protocollo di legalità ed un albo dei tiratori, facendo salire sul cippo quell’anomalo e vistoso sindaco con la maglietta di Addiopizzo al posto del tradizionale segnalatore. Quest’anno è sembrato tutto più sobrio, anche la polemica. Sarà stata la spending review o la stanchezza ad un anno dalle elezioni? La Vara è tornata protagonista, come dovrebbe essere, anche se il prefetto ha rischiato suo malgrado di rubarle la scena decidendo di rimanere a guardarla dall’alto, senza scendere in strada.
E la serata si chiude come ogni anno. Una piroetta all’incrocio tra due vie: un giro di 90 gradi, su sé stessa, preparato con cura e per la prima volta “al buio”. Ed immediato lo scatto finale, verso la piazza del Duomo. Uno strappo che inizia vigoroso, poi piano piano si smorza ad accompagnare la machina votiva sino al punto esatto in cui dovrebbe trovarsi, una precisione che costa fatica e dolore. Una mano appoggiata sulla spalla del compagno di fronte, un po’ per sostegno ed un po’ per controllo, mentre i piedi scivolano sul nero bagnato selciato di ciottoli lavici, la testa china in avanti e la corda ben salda nell’altra mano. Un applauso a sé stessi ed al Sacro, prima di fiondarsi ad accaparrare un pezzo delle lunghe gomene. Ed è tutto finito, almeno per un altro anno. Almeno la festa. Le polemiche, invece, terranno banco sino a settembre, nel silenzio della città che lentamente si ripopola.
E con la Vergine in prima fila
e bocca di rosa poco lontano
si porta a spasso per il paese
l’amore sacro e l’amor profano.
F. De Andrè – Bocca di rosa