Quella di Salvatore Crisafulli è una storia simile a molte altre, iniziata con un gran fragore e finita in un cumulo di cenere e silenzi. A soli quarantasette anni Salvatore ha perso la vita, il 21 Febbraio 2013, dopo oltre dieci anni di immobilità: la chiamavano “sindrome di locked in”, l’uomo era intrappolato, imprigionato all’interno di un corpo inerte ma comunque in grado di consentirgli piccoli, impercettibili movimenti. Unica interfaccia con il mondo esterno, un computer a scansione con cui Crisafulli avrebbe persino stilato un romanzo. “Ci mise oltre un anno a scriverlo – ci spiega il fratello Pietro – E fra una pagina e l’altra trascorrevano ore. Non era facile per lui, né per noi.”
Per Salvatore la morte è arrivata all’improvviso, probabilmente a causa di un’insufficienza respiratoria, nulla a che vedere con il drammatico incidente che nel 2003 lo aveva reso un paziente in stato di coma vegetativo. Dopo due anni dall’infortunio si sarebbe verificato l’imprevedibile il risveglio, almeno a detta dei medici. Pietro tuttavia si mostra scettico, certo che il fratello avrebbe mostrato segni di reattività dopo soltanto otto mesi dall’incidente.
Numerose le battaglie combattute dall’intera famiglia, volte ad accertare la veridicità delle diagnosi e la reale causa del decesso di Salvatore: sono attualmente in corso le procedure legali, mentre Pietro chiede a gran voce una maggiore attenzione ai pazienti che versano in condizioni simili a quelle del fratello. A parere suo la scienza medica andrebbe migliorata, i suoi parametri perfezionati, ma l’ardore con cui persegue la sua causa svela a tratti un inconfondibile desiderio di rivalsa nei confronti di chi forse non ha fatto abbastanza.
Un caso di interesse nazionale il suo, eppure se ne parla ancora poco. Quanto è importante l’attenzione dei media in simili circostanze?
“Molto, naturalmente. Stiamo facendo di tutto affinché ciò che è accaduto a mio fratello acquisisca la risonanza che merita, ci siamo persino adoperati nella realizzazione di un film. Non si tratta di una pellicola di larga diffusione ma ci sono state numerose proiezioni, fra cui una presso la Camera dei Deputati. Le reazioni sono state positive ed il film ha ottenuto una candidatura a Cannes. Sempre che qui in Italia non intervenga la censura…”
C’è davvero questo rischio?
“Beh, fondamentalmente sì. Si tratta di verità scomode, di accuse al sistema sanitario e persino politico, con evidenti allusioni a personaggi tuttora in auge. Il legame fra apparato statale e sanità è ancora forte, possiamo aspettarci di tutto.”
Ha parlato di un film-denuncia, dunque che cosa si contesta? Cosa andrebbe cambiato?
“Ciò che chiediamo è innanzitutto una maggiore attenzione ai pazienti in apparente stato di coma vegetativo. Si tratta di una condizione che si dichiara in atto quando il malato è entro determinati parametri, stabiliti da medici e personale sanitario e teoricamente accertati con precisione. Ebbene, sarebbe ora che questi indicatori venissero aggiornati e che si aspettasse prima di parlare di un totale ed irreversibile stato di incoscienza. Di pazienti nelle stesse condizioni di mio fratello io ne conosco circa 130 e non credo affatto che per tutti loro si possa parlare di coma vegetativo permanente. Sono certo che molti di loro siano coscienti ma incapaci di muoversi, forse per via dei farmaci.”
Da cosa ha dedotto che suo fratello stava recuperando conoscenza, nonostante il parere contrario dei medici?
“Io con Salvatore parlavo molto. Nonostante fosse disteso con gli occhi chiusi, non mi stancavo di star seduto accanto a lui e ricordargli tutto ciò che avevamo passato. Eravamo molto legati io e lui, ogni tappa della nostra vita l’affrontavamo insieme: ci siamo sposati a distanza di poco tempo, Ambedue abbiamo avuto quattro figli. Abbiamo trascorso l’infanzia in collegio, anche in questo caso l’uno al fianco dell’altro e nel corso di una delle nostre chiacchierate gliene ho voluto parlare. Mentre ricordavo le angherie dei nostri insegnanti l’ho visto piangere. Lacrimava vistosamente! I medici l’hanno definita una reazione involontaria ed incondizionata, ma io sapevo che non era così. Il tempo mi ha dato ragione.”
Lei è un uomo combattivo, quasi inarrestabile. Eppure non deve essere stata una passeggiata…
“Assolutamente no, anche io sono crollato. È successo pochi mesi fa, subito dopo la morte di mia madre. Ha subìto due interventi, nessuno pensava che avrebbe perso la vita e invece è successo. Shock settico, un’infezione. Se n’è andato il pezzo migliore della famiglia ed io ho conosciuto la depressione. Lei era una fra i più battaglieri, voleva la verità per Salvatore e invece non è nemmeno riuscita ad assistere alla proiezione del film.”
Una famiglia stretta intorno a Salvatore, anche durante il coma. Negli anni immediatamente successivi all’incidente avete mai pensato alla possibilità dell’eutanasia?
“Sì, certo. Vederlo disteso in quel letto, senza alcuna reazione e con un groviglio di tubi avvolti intorno al suo corpo non è stato facile. Per fortuna non è stata la strada che abbiamo intrapreso.”
Pietro Crisafulli, che ha assistito al dramma del coma e al decesso del fratello, non predica una “cultura della morte”, bensì chiede che venga garantito innanzitutto il diritto alla vita, all’assistenza, alle cure.
Riferendosi alla triste vicenda che ha da poco interessato DJ Fabo, l’uomo si stupisce del fatto che la morte sia ancora l’unica via percorribile. “Dietro decisioni così tragiche e senza ritorno di solito c’è il dramma di una famiglia abbandonata al suo destino, c’è l’abbandono delle istituzioni – scrive Pietro su un noto social network – Se poi la morte viene presentata come l’unica alternativa possibile, parlare di scelta è solo una grande ipocrisia.”
“Come diceva mio fratello Salvatore – prosegue poi – le lotte devono essere condotte per invocare la vita e non per sentenziare la morte, per potenziare e sensibilizzare la ricerca scientifica, non per giustificare il macabro inganno di una morte dolce, dietro cui si nasconde solo cinismo e utilitarismo.”