L’altra faccia della medaglia

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Povera patria! Schiacciata dagli abusi del potere
di gente infame, che non sa cos’è il pudore,
si credono potenti e gli va bene quello che fanno;
e tutto gli appartiene.


Sono tante, una accanto all’altra, tutte piccole, tutte basse, tutte più o meno simili tra loro. La vista non riesce a scorrere: sono una l’orizzonte dell’altra. A volte non sono più grandi di un monolocale, non potresti mai immaginare cosa cresce al loro interno.

Al loro interno c’è un mondo, un mondo vissuto da tante, troppe famiglie, vissuto da bambini, adolescenti, anziani, un mondo che non riesce a guardare più in là di qualche metro perché poi si scontra con un’altra casa, un’altra casa simile, forse con qualche bambino in più e qualche anziano in meno, ma con gli stessi problemi.

Le tue amiche sono mai venute a trovarti?
No, non sono mai venute.
E tu sei mai andata da loro?
No.
Cosa ti manca qui?
Una stanzetta mia.
Non hai una stanza in cui dormire?
No.
E dove dormi adesso?
Dormo in camera con i miei genitori e i miei tre fratelli.

Non ha più di 14 anni, è nata e cresciuta in questa casa, tra le coccole e l’amore di due genitori che vivono qui ormai da oltre 10 anni. È cresciuta giocando per la strada, tra una pozzanghera e un muro che cadeva, è cresciuta vedendo abbattere le case vicino alla sua e vedendo crescere palazzi enormi, senza che mai nessuno le abbia dato la possibilità di poter invitare senza vergogna le amiche a casa propria. Ed è questa la mutilazione più grande: la mutilazione dello spirito, dei sogni, la mutilazione dell’anima, la mutilazione della normalità. Quella normalità in cui ogni bambino del mondo ha il diritto di vivere.

Cosa vuoi fare da grande?
Non lo so.
Non hai un sogno?
Voglio andare via da qui.

Lei di anni ne ha 8. È piccola, una bambina, una bambina che dovrebbe sognare il suo futuro, che non dovrebbe avere alcun pensiero se non quello di giocare e divertirsi. Invece no, neanche questo le viene concesso. Lei il suo futuro non lo sogna, lei vuole solo andare via da questa casa, da questo quartiere. Glieli hanno rubati i sogni, loro. Loro che girano con le macchinone, loro che non si accorgono se correndo a tutta velocità bagnano un passante che sta cercando di evitare la pozzanghera, loro che pensano a fare grandi opere pubbliche quando molte famiglie non arrivano a fine mese.

Cosa vi manca?
Ci manca tutto.
Ma c’è qualcosa che vorreste chiedere?
Vorremmo uno spazio per giocare, dove poterci muovere.
Non ne avete uno?
Abbiamo la strada.
Cosa pensate che non vada nella nostra città?
Tutto, dovrebbero andare via tutti quelli che ci rappresentano. Dalle massime autorità del Governo al più semplice consigliere di quartiere.
Non vi sentite rappresentati da loro?
Assolutamente no, loro non sanno niente di noi.
E cosa ne pensate del costruzione del ponte?
Posso dire la mia?
Certo che puoi.
Secondo me è una grandissima cavolata.
Perché lo pensi?
Perché non ce ne facciamo niente, abbiamo bisogno di altro.

Loro hanno dagli 11 ai 15 anni, sono un gruppetto di ragazzi, qualcuno è nato e cresciuto lì, qualcuno ci vive da qualche anno, qualcun altro è in procinto di trasferirsi. Ma tutti sono accomunati da una grande sfiducia, sfiducia verso chi ha il compito di governare la città, la regione, il paese. Loro non si fidano. Non credono che le cose possano cambiare se a cambiare non siano innanzitutto coloro che hanno il potere, coloro che possono fare qualcosa per tutti noi, ma che, la maggior parte delle volte, preferiscono stare ad assistere inermi agli eventi. Una grande rabbia viene celata tra una risata e un tiro al pallone. La loro adolescenza sta trascorrendo e nessuno fa niente per restituirgli la speranza, la fiducia. Ed è questa la cosa più grave: stanno crescendo senza alcuna aspettativa, stanno crescendo con la rabbia nell’anima. Ma loro, loro sono gli adulti di domani, loro sono il futuro dell’Italia, della Sicilia, di Messina, loro sono il ceppo ancora un po’ bagnato che presto prenderà fuoco e riscalderà l’intera casa, loro sono le anime inquiete che domani siederanno dietro scrivanie di grandi uffici legali, sono coloro che indosseranno lunghi camici bianchi salvando vite umane, sono coloro che con un microfono e un registratore gireranno il mondo, sono il nostro futuro. E troppo spesso questo viene dimenticato.

Non voglio che mia figlia muoia qui, vorrei che potesse vivere in una casa normale, che potesse avere una stanza propria con un balcone. Ogni tanto quando passeggiamo mi indica qualche bel palazzo e mi chiede perché non posso comprare un appartamento lì e darle una finestra con fiori colorati e il cielo azzurro all’orizzonte. Ma io non posso permettermelo.

Clara, così la chiameremo, è madre di quattro figli, tre dei quali sposati, e una di ventisei anni affetta dalla Sindrome di Down. Clara vive, insieme alla figlia e al marito, da 28 anni tra le mura di questa piccola casa senza orizzonte. Le mura sono pitturate, una tendina si intravede dalla finestra, una normalità cercata e anelata in ogni più piccolo dettaglio. E anche qui, come negli adolescenti loro vicini, c’è una grande rabbia.

“È da 30 anni che viviamo qui, lei lo sa cosa vuol dire? E sa quanta gente è venuta a vedere le nostre case? Quante autorità sono venute per promettere opere grandissime, e cosa crede che sia cambiato? Niente. Non è cambiato niente. Sa quanti giornalisti sono venuti a intervistarci? L’ultima volta che sono venuti eravamo disperati, avevamo l’acqua in casa, ma non solo l’acqua piovana, anche le fognature. La signora qui di fronte era incinta e piangeva disperatamente, lei vede qualcosa di diverso da allora?
Perché se è vero che le autorità politiche non ci hanno mai aiutato restando con le mani in mano, è altrettanto vero che i giornalisti non sono stati da meno. Sono venuti, ci hanno intervistato, hanno fatto il servizio perché in quel momento c’era la notizia, e poi basta. Nessuno parla più di noi. Hanno dato le case a persone che stavano qui da qualche anno, di noi che siamo qui da 30 anni nessuno si è ricordato.”

Il marito di Clara parla con una grande compostezza ma pronunciando parole taglienti generate da ferite fin troppo aperte. Parole veritiere, che preferiremmo non sentire, ma che hanno bisogno di essere urlate al mondo. Noi, noi giornalisti dovremmo essere il cosiddetto quarto potere, coloro che denunciano, che scoprono, che indagano, coloro che danno voce a chi non ce l’ha. E invece troppe volte non facciamo altro che essere soggiogati dal potere, non facciamo altro che essere ammaliati da questo e corrotti, ci giriamo dall’altra parte e preferiamo non vedere. Ma queste realtà esistono, fanno parte della nostra città e devono essere raccontate. Come questo quartiere ce ne sono altri, tanti altri, forse fin troppi, e quasi tutti a pochi passi dal salotto elegante della città: il Viale.

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