L’avvocato Famà nel ricordo di S. Ardita

Ho in mente questa scena come se fosse accaduta ieri:
davanti al bar del Tribunale, l’avvocato Serafino Famà che si allontanava
tirando a sé sottobraccio un collega.

Era sempre energico, imprevedibile e ironico.

Accettava la battuta anche sul suo look un po’ eccentrico,
con la barba e i capelli folti e ricci che incorniciavano i lineamenti marcati
e lo rendevano inconfondibile. Arrivava in Tribunale con la giacca di velluto
sopra il maglione a collo alto.  Abiti
comodi che gli consentivano di muoversi con l’agilità di un felino. Nel suo
ruolo di professionista era sagace e determinato.

Non ti lasciava uno spazio libero, come nel calcio un
mastino di difesa abituato a marcare a uomo e a renderti impossibile il
controllo di palla. Non gli sfuggiva nulla. Se rilevava una minima
contraddizione, te la sbatteva in faccia per farti crollare l’impianto
accusatorio. Non faceva sconti sul campo, l’avvocato Famà.

Era orgoglioso e fedele al suo mandato difensivo. La difesa come diritto inviolabile dell’imputato te la faceva sentire addosso tutta intera. Durante il contro-esame non gradiva essere interrotto. Se doveva mandare al diavolo un pubblico ministero lo faceva volentieri, e ogni tanto volavano in aula parole grosse. Una volta dovette abbandonare il campo, espulso dall’«arbitro».

Cose che capitano a quegli allena-tori sanguigni che seguono la partita in piedi e non si la-sciano sfuggire un’azione. Era così, tutto d’un pezzo. Non conosceva le mezze misure, e dentro lo spazio che gli era assegnato voleva essere rispettato. Non era un avvocato di corridoio, era un legale da campo aperto di battaglia.

E in questo suo atteggiamento non conosceva riverenze, né sottomissioni nei confronti di chicchessia.

Un giorno, mentre sostenevo l’accusa in un processo alla mia solita udienza del martedì, dinanzi alla sezione che curava i reati tributari, un giovane avvocato del suo studio ebbe un battibecco con l’anziano presidente. Il legale chiedeva che il Tribunale ammettesse una prova e voleva versare alcuni atti che appartenevano a un altro procedi-mento.

Ma il Tribunale rigettò la richiesta – che non era affatto pretestuosa – e quando il giovane insistette il presi-dente lo interruppe. Nacque una piccola discussione, finché l’anziano magistrato alzando la voce non gli tolse la parola in malo modo e rinviò il processo di una settimana esatta.

La settimana dopo, quando fu riaperto il dibattimento, improvvisamente si materializzò una sagoma appoggiata alla balaustra dell’aula che segna il perimetro della zona riservata agli addetti ai lavori. Era l’avvocato Famà, che stava tre metri più indietro del suo giovane collega. La sua presenza era un messaggio piuttosto chiaro indirizzato a chi presiedeva quel collegio: se vuoi maltrattare un giovane avvocato che sta facendo il suo lavoro devi avere il coraggio di farlo davanti a me. Il presidente notò Famà  e – quando il giovane ribadì la richiesta – fu molto più garbato nell’articolare il suo diniego. La decisione rimase uguale nel merito, ma questa volta venne esposta con molta calma e garbo. Talora alcuni magistrati, abituati a non essere mai contraddetti, rischiano di essere troppo sbrigativi anche nei modi.

Ma per un avvocato con la schiena dritta conta anche questo: essere rispettato dai giudici.

Del resto chi non ha nulla da temere e svolge il proprio ruolo con determinazione acquista credito nell’ambiente giudiziario. E ai miei occhi quella scena apparve come un gesto di coraggio e di solidarietà che incrementò la mia stima in lui. Con la sua tenacia e la sua combattività Famà si era ritagliato uno spazio importante.

Difendeva una clientela composta di varia umanità, fatta anche di imputati che appartenevano a cosche mafiose. Ma lui metteva un’ampia scrivania tra sé e i clienti. Ascoltava quel che avevano da dire, raccoglieva gli elementi, ma poi la linea difensiva la elaborava lui.

Non poteva tollerare che qualcuno suggerisse le sue mosse:
le prove da fornire, gli argomenti da usare, le iniziative da prendere dovevano
essere affar  suo, e basta. Insomma, era
sempre corretto e cortese, ma sapeva essere un duro se necessario. Ed è per
questo che la notizia del suo omicidio, la sera del 9 novembre 1995, ci scosse
davvero tutti.

Mentre usciva dallo studio in compagnia di un collega, per
recarsi a casa, come sempre, un commando lo assalì alle spalle. Uno dei sicari
lo chiamò per nome e quando lui si girò gli esplose contro diversi colpi di
pistola al petto e al volto. Quella morte fece piombare il mondo giudiziario in
un’angoscia profonda e ci poneva innanzi a un indecifrabile rebus.

 Perché un avvocato e
perché proprio Famà? Era difficile capire cosa potesse esserci dietro…