Ve l’immaginate una prostituta dal peso di centodieci chili, una matrona esageratamente corpulenta e pure piuttosto attempata, che ha dietro la porta una fila di clienti smaniosi di essere ricevuti? E ve l’immaginate una “signorina” di oltre settant’anni ancora piacente a dispetto dell’età e, dunque, nel pieno esercizio della sua consolidata attività di “squillo” che si imbelletta per giovanotti scalpitanti, pronti a vivere un’esperienza da raccontare agli amici increduli?
Succedeva, sì. È storia. È cronaca. Roba di quasi un secolo fa, dei tempi delle
case chiuse, quando dalle Alpi alla Sicilia il meretricio si svolgeva legalmente nell’intimità di ambienti sterilizzati, chiamati anche case di tolleranza o case d’appuntamento, oppure, per usare un termine terra terra, bordelli o, più ordinariamente, casini. Tutto sotto una rigida regolamentazione legislativa e rigorosi controlli sanitari.
Lo racconta la giornalista Alessandra Artale in un bel libro dal titolo “Storia delle case chiuse” (Editoriale Programma), un volume documentatissimo che parte dal 1860 e arriva al 20 settembre del 1958, giorno in cui il parlamento mise fuori legge le case chiuse su iniziativa della senatrice Lina Merlin. “La notte dell’addio”, scrive Alessandra Artale, ricordando che quel colpo di spugna fu accolto dai movimenti femministi, allora in embrione, come un’importante conquista di civiltà a
favore delle donne, del tutto ignare che la cancellazione della legge avrebbe trasferito sui marciapiedi e nei parchi delle nostre città il mercato del sesso a pagamento, per la gioia dei clan criminali, finalmente liberi di
controllare con violenze e vessazioni di ogni genere quel fenomeno sociale e di costume.
Il libro contiene citazioni sul tema di personaggi illustri (e frequentatori impenitenti) come Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Enzo Biagi, Dino Risi, Raimondo Vianello, Alberto Sordi, e raccoglie le testimonianze delle ragazze di vita (ma che vita?) dei tempi che furono, costrette dalla necessità a vendere il proprio corpo, e delle maitresse (o tenutarie) che gestivano le case come fossero aziende, anzi, come le definisce l’autrice, “istituzioni di pubblica utilità”, che istruivano all’arte amatoria “generazioni di giovanotti imberbi e maldestri”.
Naturale, nello scorrere le 127 pagine del libro, l’alternanza di sorrisi maliziosi e moti di compassione per le “signorine” dai nomi esotici (Wanda, Zaira, Betty, Pupa, Yvonne, Tamara, Iris) che svolgevano il mestiere più antico del mondo accogliendo clienti di ogni età e categoria sociale.
Nel volume abbondano le locandine d’epoca con l’indicazione di prestazioni e tariffari (si pagavano perfino l’acqua di colonia e la saponetta) e, ovviamente, non mancano le foto delle ragazze completamente nude o, nel migliore dei casi, in abiti (???) succinti, con vestaglie aperte, pizzi, merletti, reggiseni trasparenti. Foto che nascondono sotto pelle storie di miseria, solitudine, disperazione.
“Ma almeno – scrive Alessandra Artale – in quelle case l’attività era garantita dal rispetto delle regole, soprattutto sanitarie. Oggi siamo allo schiavismo, alla tratta delle donne, usate e sfruttate da ignobili trafficanti di esseri umani”.
Numerosi gli aneddoti talmente curiosi da sembrare iperbolici (ma sono spezzoni di vita vissuta) e le chicche che svelano qualche curioso arcano. Uomini e donne di svariata età dovrebbero conoscere il marchio Hatù, in auge fino a qualche tempo fa, ma non tutti, probabilmente, sanno che si tratta dell’acronimo di una frase latina “HAbemus TUtorem”, inventata dal fondatore dell’azienda di profilattici, Franco Goldoni, per esaltare la funzione protettiva del suo prodotto. Significava avere rapporti sessuali garantiti,
al riparo da sorprese.
Ma talvolta, mannaggia, l’incidente ci scappava ugualmente. E allora piovevano guai per le malcapitate fanciulle e maledizioni a cascate per il fantomatico signor Hatù.
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