In occasione dei venti anni dalla sua morte, il 19 Luglio 1992, sono sicuro che ci narreranno del perché e del per come della sua morte.
Si faranno le solite, ripetute e stancanti domande del se era o meno una morte annunciata. Del se era “un morto che cammina che ancora non sa di essere morto” come si dice in Sicilia di un uomo che la mafia ha già condannato. Si porranno i soliti dubbi sulla fine che ha fatto la famosa Agenda Rossa scomparsa o se pezzi deviati dello Stato hanno o meno controfirmato la sentenza di condanna a morte di Borsellino.Io invece, in sua memoria, mi voglio attenere al suo insegnamento e parlare di mafia o meglio del mafioso che quel pomeriggio di Luglio del 92 schiaccio il detonatore, Giuseppe Graviano. Giuseppe pur giovane nel 1992 era già un vero boss della mafia. In realtà non si tratta di un solo uomo ma di una intera famiglia che, discendendo dal capostipite Michele Graviano ucciso nel 1982, spiega i suoi tentacoli mafiosi attraverso i quattro figli Benedetto, Filippo, Giuseppe e Nunzia, prima su tutta Brancaccio e poi sull’intera Palermo.
Che si trattasse di una famiglia potente, il primo a capirlo fu Padre Pino Puglisi, ucciso nel 1993 per ordine dei fratelli Graviano, che sin dal 1990, anno in cui diventò Parroco del mandamento di Brancaccio, andava per le strade a predicare contro la Mafia. Egli non tentava di portare sulla giusta via coloro che erano già entrati nel vortice della mafia ma cercava di non farvi entrare i bambini che vivono per strada e che consideravano i mafiosi degli idoli. Attraverso attività e giochi faceva capire loro che si può ottenere rispetto dagli altri anche senza essere criminali, semplicemente per le proprie idee e i propri valori. Anche di lui la gente bisbigliava sottovoce “è un uomo che respira senza sapere di essere morto”.Giuseppe Graviano non è un pentito di mafia, cinque ergastoli e l’applicazione del carcere duro non hanno piegato questo criminale che in occasione dell’omicidio Borsellino ebbe a dire “abbiamo colpito e abbiamo fatto un buon lavoro, siamo tutti soddisfatti, abbiamo dimostrato di colpire dove e quando vogliamo”.
Quello che emerge dalla dichiarazioni del pentito Spatuzza, uno degli esecutori materiale dell’omicidio di Padre Pino Puglisi, è il ritratto di un uomo freddo e pragmatico. Non è sanguigno e animalesco come Brusca, Giuseppe è un prima di tutto un uomo d’affari, un uomo che si è preoccupato di gestire, reinvestire e riciclare gli immensi proventi che lo spaccio di droga gli ha procurato. Un uomo calcolatore e opportunista che è riuscito insieme al fratello Filippo a creare e amministrare un impero economico anche se messo dietro le sbarre e sottoposto al regime duro del 41 bis.Di quel periodo di guerra tra la Mafia e lo Stato Italiano, Giuseppe Graviano è stato uno dei massimi generali delle forze del male. Tra la morte di Falcone ( G. Brusca) e quella di Borsellino, tra il disegno di uno pseudo impero criminale di Totò Riina e con Provenzano ancora latitante, a lui che viene affidato il compito di minacciare e intimidire lo Stato Italiano. La sua strategia d’attacco è diventata un classico del manuale del perfetto terrorista. Colpire i rappresentanti della Istituzioni dello Stato ? Ci avevano già pensato le B.R. con Aldo Moro. Fare una strage di civili ? Ripetitivo e già visto a Bologna, a Ustica e in Pazza Fontana.
Non rimaneva che colpire il cuore dello Stato Italiano, la sua identità storica, i simboli culturali dell’Italia, il cemento che tiene unita un Nazione che ha poco più di 150 anni, i suoi monumenti. E’ impressionante vedere come nel 93 l’intimidazione, l’organizzazione, la potenza di fuoco e le forze messe in campo dalla Mafia abbiano fatto letteralmente tremare lo Stato Italiano. -14 maggio 1993 Fallito attentato di via Fauro Roma – 27 maggio 1993 Strage di via dei Georgofili Firenze – 27 luglio 1993 Strage di via Palestro Milano – 28 luglio 1993 Bomba a San Giovanni in Laterano Roma -28 luglio 1993 Bomba a San Giorgio in Velabro Roma – 31 ottobre 1993 Fallito attentato allo Stadio Olimpico Roma .Ancora oggi dopo venti anni mi trovo a dover fare i conti con la mia coscienza e a chiedermi se lo Stato Italiano abbia mai vinto quella guerra oppure, come gli americani nel Vietnam, abbia abdicato e accettato di sottoscrivere un patto di non belligeranza (il c.d. “papello”).Le mie perplessità diventano legittime se pensiamo che una potenza capace di fare quello di cui ho accennato sopra, e molto altro ancora, non può essere scomparsa solo perché sono stati arrestati 10, o 100, o 1000 mafiosi. E’ il silenzio del presente che mi preoccupa. E’ considerare la Mafia come un fatto storico del nostro passato. L’errore, se di errore si può parlare, è quello di non contestualizzare, di non riflettere abbastanza sulla capacità di trasformazione che la mafia ha dimostrato di avere come sua peculiarità principale.L’esempio che conferma il mio pensiero ci viene fornito proprio dalla più improbabile figura di mafioso.
Nunzia Graviano che a soli 43 anni ha già scontato una condanna a 4 anni per associazione mafiosa. Nunzia che, mentre Giuseppe e Filippo sono all’ergastolo e Benedetto è sottoposto al regime della sorveglianza speciale, nel 2011 viene arrestata con l’accusa di essere il nuovo boss. di Brancaccio. Preoccupa la capacità di questa famiglia di reinventarsi nel crimine e Nunzia, pur risultando gestire il bar Diapason, in via Tripolitania, a Roma, non solo riesce ad essere la curatrice degli affari di famiglia a Palermo ma riceve gli omaggi e i proventi della gestione degli affari criminali, 10.000 euro, direttamente dal boss delle estorsioni e della droga Giuseppe Arduino.
Intercettato e ripreso dalle forze dell’ordine mentre organizza il viaggio Palermo-Roma e la consegna dei soldi.Di Giuseppe, invece, è ancora fresca alla memoria la lettera che mandò alla Corte d’Appello di Palermo per scusarsi dell’impossibilita di testimoniare al processo dell’Utri. Una lettera dalla quale emerge tutta l’intelligenza criminale del Graviano, il quale con toni concilianti da una parte si lamenta del regime di carcere duro al quale è sottoposto, a suo dire ingiustificato, e dall’altro, al fine di evitare una eventuale accusa di reticenza o peggio, sottolinea: “Con ciò non sto chiedendo all’Illustrissima Corte d’Appello un alleggerimento del mio regime carcerario ma informarla di non essere in uno stato di salute per affrontare un interrogatorio – Sarà mio dovere quando il mio stato di salute lo permetterà di informare l’Illustrissima Corte d’Appello per rispondere a tutte le domande che mi verranno poste.”Non so se la lettera è frutto di Giuseppe o di qualche suo legale, di una cosa sono però sicuro: entrambi hanno dimenticato di riportare nella lettera che l’unica volta che lo Stato Italiano si è intenerito ed ha concesso un allentamento del carcere duro e un ora di aria fresca al giorno a Giuseppe, lo stesso ne ha approfittato per organizzare e orchestrare l’omicidio di Padre Pino Puglisi.
Pietro Giunta