Le facce della Mafia: Tommaso Buscetta il principe dei Pentiti

Nell’Agrigento del 1928 nessuno avrebbe mai immaginato che quel bambino sarebbe diventato il primo pentito di Mafia e il boss dei due mondi,  sicuramente non lo aveva pensato il padre vetraio o la madre Melchiorra, che già solo per il nome foriero di un fausto destino tutto si sarebbe aspettato dalla vita tranne che trovarsi la famiglia trucidata dalla Mafia.

Come elemento d’esportazione la mafia Siciliana, sia pure inserita nel più ampio fenomeno dell’immigrazione della popolazione del sud Italia e con tutto il disvalore che ne è derivato per la Nazione e la Sicilia in particolare, non è stata meno importante della Ferrari o dei vestiti Armani. Appunto per questo e seguendo i costumi del tempo Tommaso Buscetta, intorno agli anni 40, in pieno Fascismo, il quale tranne che per i Potestà e le Baronie è stato un periodo di fame e miseria per la nostra gente, e arsura e sudore per le nostre terre, decide di emigrare a Buenos Aires dove, con il mestiere imparato dal padre e con poca fortuna, apre una vetreria. Dopo alterne vicende economiche e matrimoniali lo ritroviamo nel 57 a Palermo. E’ il periodo del boom economico e Palermo da giardino del mediterraneo si appresta ad essere trasformata in un  deserto di cemento.

I soldi corrono a fiumi e la Democrazia Cristiana dei Lima e dei Salvo iniziano la loro scalata al potere. Anche Tommaso non rimane a guardare ed entra nella mafia attraverso la famiglia di Porta Nuova all’epoca guidata da Tano Filippone.  Dopo essere stato adottato, con apposito e segreto rito mafioso, gli viene affidato il compito di gestire gli affari del  contrabbando, affari che gli consentiranno di aprire i contatti con i picciotti americani e avviare il fruttuoso giro della Droga.

Se si potesse storicamente individuare un momento in cui la Mafia, come fenomeno criminale, passa dalla sua realtà rurale e contadina a quella affaristica, “politicamente impegnata” e c.d. imprenditoriale, lo si potrebbe individuare nell’omicidio di Michele Navarra, il famoso boss di Corleone ucciso da Liggio nella c.d. prima guerra di Mafia del 1959, che ha aperto la strada ai vertici mafiosi di due giovani picciottelli, Totò Riina e Bernardo Provenzano, delle cui gesta, intrise di ferocia e sangue, ancora oggi ne è testimone tutto il peso che grava, come il rimbombo di passi di piombo dentro la nostra coscienza collettiva, sulla Storia degli ultimi 50 anni.

E’ in questo clima di terrore e sangue che Buscetta temendo per la sua vita sceglie la latitanza e resta alla macchia fino al 1972. Viene catturato in Brasile e se pur accusato di traffico internazionale di narcotici è rimandato in Italia a scontare la pena per un omicidio che aveva commesso a Catanzaro.  

La sua carcerazione all’Ucciardone, protrattasi sino al 1980, è un pezzo di storia che attesta come in quegli anni essere mafiosi e uomini d’onore era un vanto non solo nell’ambiente malavitoso ma anche nelle istituzioni e nella società civile. Il termometro della considerazione di cui Buscetta godeva sia dentro che fuori dal carcere è sottolineato dalla circostanza, rimasta nella nostra memoria collettiva, che il miglior Ristorante di Palermo giornalmente provvedeva alla colazione, al pranzo e alla cena del “galeotto”. Non può sfuggire come questa realtà carceraria, tipica di quegli anni e  splendidamente cantata e narrata nel Don Raffaè De Andrè, abbia contribuito a fare di un delinquente, assassino, trafficante di droga, pappone, contrabbandiere e tant’altro, un uomo a cui accostare la parola onore non appariva essere disdicevole.

Nel Luglio del 1984 la mafia in Sicilia era una potenza economica e militare, una istituzione che davanti ad uno Stato assente aveva occupato tutti gli spazi e i livelli politici, culturali e sociali. Solo in questo modo ci possiamo spiegare quel “sono un mafioso” spiattellato davanti al Giudice Falcone in quel primo loro incontro. Non è l’incontro di un criminale con un Giudice, è l’incontro di un rappresentante del potere mafioso con un rappresentante di una potenza straniera, quella dello Stato Italiano. A ben vedere è stata proprio questo tipo di mentalità che ha dato luogo, pochi anni dopo, al “Papello”. La famosa trattativa tra lo Stato e la mafia che per molti aspetti possiamo equiparare ad un trattato internazionale, tipico degli accordi tra gli Stati Sovrani, di non belligeranza.

Solo Falcone, un uomo fuori da tutte le logiche di compromesso con la mafia che imperversavano in quei tempi, poteva riportare la questione irrisolta tra Stato e Mafia alla giusta distanza e nella corretta prospettiva. Solo Lui, un uomo che amava profondamente il suo lavoro di servitore dello Stato, allo stesso modo e con la stessa intensità con la quale amava la sua terra e ne conosceva profondamente la sua gente, poteva rispettare il pentito Buscetta disconoscendone nel contempo qualsivoglia onorabilità e condannando ed imputando qualsiasi rilievo delinquenziale dello stesso.

Ha poco senso oggi domandarsi quali motivi ebbe Buscetta per diventare il primo pentito di mafia, forse motivi di vendetta nei confronti di chi gli aveva ammazzati il fratello Vincenzo, il cognato, tre nipoti e i due figli Benedetto e Antonio, o quali sottili meccanismi psicologici che intercorsero tra loro. Non è esagerato affermare che fra i due vi fosse stima reciproca (sicuramente da parte di Buscetta). E’, di fatto, il primo “pentito” della storia, un ruolo e una scelta che pagherà a caro prezzo (praticamente, con gli anni, la famiglia Buscetta è stata sterminata per ritorsione dalla mafia).

Dalle sue dichiarazioni nascono quasi tutti i più importanti processi di Mafia che si sono tenuti in Italia. Svela i meccanismi della famosa Cupola mafiosa e gli organigrammi delle cosche avversarie, poi quelle dei suoi alleati. Consegna ai giudici gli esattori Nino ed Ignazio Salvo, quindi Vito Ciancimino. Nel 1992, quando viene assassinato il parlamentare europeo della Democrazia Cristiana Salvo Lima dirà che “era uomo d’onore”. In seguito, le sue dichiarazione hanno puntato sempre più in alto, fino ad indicare in Giulio Andreotti il riferimento più importante, a livello istituzionale, di Cosa nostra nella politica.

Il 4 aprile del 2000, all’età di 72 anni e dopo 14 anni di confessioni rilasciate in America sulla Mafia Italo-Americana, irriconoscibile per via delle numerose plastiche facciali affrontate allo scopo di sfuggire ai killer della mafia, Buscetta muore a New York per un male incurabile.

Possiamo concludere con le parole di Ottaviano Del Turco, il presidente della commissione antimafia, che in occasione delle morte del boss ebbe a dire:  “L’uomo che aveva capito meglio di tutti chi fosse Buscetta rimane Falcone”.

Pietro Giunta.