Le ‘Ntuppatedde della Santuzza: donne libere per 48 ore

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Dal  4 al 5  febbraio, dal medioevo, per 48 ore, Catania è tutta per sant’Agata e celebra la Santuzza con una festa che non conosce posa, risparmio di forze e mezzi, coinvolgendo  la città  tutta, dall’alba alla notte, con un preludio laico, nella giornata del 3 febbraio.

Una storia di coerenza, coraggio e libertà, quella della fanciulla martire dall’anima combattente: Agata ha respinto il governatore Quinziano, che “aveva deciso di volerla per sé ad ogni costo”,  e tenace e fedele a se stessa  ha affrontato  la mutilazione del corpo e la morte. Era il 251 dopo Cristo. 

Si può ipotizzare che questa nobile idea di libertà e disobbedienza in qualche modo abbia lasciato il suo segno anche nel   rito laico delle donne libere per 48 ore che si celebrò a Catania per duecento anni, fra 4 e 5 febbraio,  fino al 1868.

Le chiamavano ‘ntuppatedde:  erano ragazze e donne adulte  che, accompagnando il fercolo della santa,  travestite e irriconoscibili, con il viso coperto, nelle due giornate della festa, unendosi    alla folla dei devoti, erano  libere di muoversi, di rivolgere la parola a chiunque, di   far scherzi agli uomini,   di accettare da loro in dono   dolci, senza che padri, fratelli o mariti potessero intervenire o imporre loro di non partecipare al rito “della libertà”. 

Le chiamavano  “’ntuppatedde” perché nel dialetto siciliano la  ‘ntuppa è  la membrana che chiude il guscio delle lumache durante il letargo.

Le ‘ntuppatedde di Sant’Agata portavano, infatti,  un velo scuro e denso che ricopriva totalmente il volto lasciando solo due fori, o uno solo, per poter vedere senza essere riconosciute.

Forte doveva essere “l’impressione” che le donne incappucciate o velate dovevano suscitare  nei catanesi e nei forestieri giunti da ogni parte non solo del territorio catanese, ma del mondo.   Anche il pittore e viaggiatore francese Jean-Pierre Houel le ritrasse in una tavola dedicata alla festa di Sant’Agata nel 1780.

Così le descrive Giovanni Verga nel racconto “la coda del diavolo”: “Il costume delle ‘ntuppatedde componesi di un vestito elegante e severo, possibilmente nero, chiuso quasi per intero nel manto, il quale poi copre tutta la persona e lascia scoperto soltanto un occhio per vederci e per far perdere la tramontana, o per far dare al diavolo. La sola civetteria che il costume permette è una punta di guanto, una punta di stivalino, una punta di sottana o di fazzoletto ricamato, una punta di qualche cosa da far valere insomma, tanto da lasciare indovinare il rimanente.”

Il rientro del dopo-festa pare avvenisse nel silenzio e nella quiete del recupero dei ruoli antichi: quel breve tempo  di libertà non aveva  conseguenze nella vita quotidiana e tutto ricominciava come dopo un vuoto che la normalità riassorbiva prepotente.

Che fosse, però,  un  rito sovversivo, per nulla facile da far rientrare nella normalità della cultura patriarcale siciliana ce lo conferma sempre   Giovanni Verga  che parla di “diritto delle ‘ntuppatedde” dedicandogli  un excursus socio-antropologico:

 

“Dalle quattro alle otto o alle nove di sera la ‘ntuppatedda è padrona di sé (cosa che da noi ha un certo valore), delle strade, dei ritrovi, di voi, se avete la fortuna di esser conosciuto da lei, della vostra borsa e della vostra testa, se ne avete; è padrona di staccarvi dal braccio di un amico, di farvi piantare in asso la moglie o l’amante, di farvi scendere di carrozza, di farvi interrompere gli affari, di prendervi dal caffè, di chiamarvi se siete alla finestra, di menarvi pel naso da un capo all’altro della città, fra il mogio e il fatuo, ma in fondo con cera parlante d’uomo che ha una paura maledetta di sembrar ridicolo; di farvi pestare i piedi dalla folla, di farvi comperare, per amore di quel solo occhio che potete scorgere, sotto pretesto che ne ha il capriccio, tutto ciò che lascereste volentieri dal mercante, di rompervi la testa e le gambe – le ‘ntuppatedde più delicate, pių fragili, sono instancabili, – di rendervi geloso, di rendervi innamorato, di rendervi imbecille, e allorché siete rifinito, intontito, balordo, di piantarvi lė, sul marciapiede della via, o alla porta del caffè, con un sorriso stentato di cuor contento che fa pietà, e con un punto interrogativo negli occhi, un punto interrogativo fra il curioso e l’indispettito…“ e infine “  ve ne restate colla vostra curiosità in corpo, nove volte su dieci, foste anche il marito della donna che vi ha rimorchiato al suo braccio per quattro o cinque ore – il segreto della ‘ntuppatedda è sacro. Singolare usanza in un paese che ha la riputazione di possedere i mariti più suscettibili di cristianità! È vero che è un’usanza che se ne va”.

  Verga   scriveva nel 1887, quando ancora erano vive le polemiche ma anche il fascino di quel rito sovversivo vietato  dal 1868, «per motivi di sicurezza e perché “offensivo della morale”  con  disposizioni rigide e categoriche “quasi fosse affar di stato”.

Da otto anni, le “ntuppatedde” sono tornate, per iniziativa  dell’artista Elena Rosa,  in veste nuova e  simbolica, adattata al XXI secolo, ad  un tempo diverso, nel quale però la libertà delle donne resta in parte ancora sotto “la tuppa”.

Il 3 di febbraio, nella mattina che apre i festeggiamenti agatini, tra candelore infiorate  e carrozza del Senato, in un clima che non sa ancora di religiosa devozione, ritornano le nuove ‘ntuppatedde, realizzando gioiose performance artistiche.

I loro corpi non sono più occultati, ma  avvolti da  abiti bianchi, da spose,  con il capo coperto da veli candidi e lievi che lasciano  ben visibili i tratti del volto;  portano  il medaglione di sant’Agata e reggono in mano garofani rossi che ai più ricordano  il corredo floreale che accompagnerà la santa il giorno dopo.

Coinvolgendo devote e devoti nel libero gioco della danza  e della musica, si muovono fiere in un mare di folla, come le loro antenate,   per riaffermare  il valore della femminilità libera che non può esser  tale se resta costretta e “ntuppata”  nei confini delle antiche 48 ore.

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