Le parole che il suono ci ha sottratto

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Qui, proprio su questa soglia della sala della biblioteca, conobbi un uomo molti anni fa. D’accordo, conoscere è una parola esagerata in questo specifico caso, diciamo che ci salutammo per la prima volta, per cortesia. All’epoca ero ancora una bambina, andavo alle elementari, ultima classe, e vivevo in un mondo fatto di fantasie e giochi, come molti dei miei coetanei. Quel signore non era mica un uomo qualunque, lui, per tutti noi era una leggenda vivente. Un uomo alto e magrissimo, mani affusolate ed enormi, le punte delle dita affilatissime, storte, comunque elegantissime aggrovigliate attorno al suo plico di libri legati in un laccetto smeraldo con i ricami rossi. Portava degli occhiali grigiastri con montatura leggera, piccoli e rettangolari, sulla punta del naso. Mica un naso qualunque, s’intende! Quello era un monumento al naso, un pezzo di mitologia urbana in carne e ossa per tutti i ragazzini del quartiere. Solo a gesti si poteva descriverne la forma, allora non si era bravi a trovare termini adatti, si mimava e tutti capivano immediatamente.

Lo so, in tutti i quartieri del mondo c’è qualche personaggio che fa paura ai ragazzini, del quale si narrano leggende metropolitane assurde, solamente che allora non era affatto così ovvio. Quell’uomo, sempre elegante, seppur vestito di qualche taglia più piccola, con il viso rugoso e macchiato dagli anni, ci appariva come un leggendario e crudele custode della biblioteca. In realtà, con il senno di poi, il suo viso era mite, quasi ingenuamente infantile disegnato da morbidissime rughe. Certo è, che da bambini, la fantasia ci fa vedere storie fantastiche quanto assurde. Nessuno aveva mai parlato con quell’uomo. C’era chi diceva fosse muto, sordo no, per sentirci dicevano sentisse benissimo. Lo temevano tutti, e lui si sollazzava a spaventare i ragazzini più maleducati e impiccioni del quartiere, quelli che lo schernivano o, peggio ancora, maltrattavano i suoi amati libri. Bastava si alzasse in piedi e questi burberi ometti fuggivano a gambe levate. Lui lo sapeva, e di questo era forse persino un po’ annoiato.

Io non ero certo coraggiosa, semmai ero imprudente e, non era un caso, finissi sempre con il mettermi nei guai, in un modo o nell’altro. Successe così, poiché in biblioteca mi riusciva enormemente difficile guardare dove mettevo i piedi, tanto ero affascinata da tutti i volumi e da quegli scaffali di legno scuro, laccato, intarsiato… ci scontrammo, ovviamente per colpa mia. Ricordo perfettamente le sue mani che invano tentarono di recuperare i libri prima dello schianto al suolo. Una copertina mi sembrò danneggiata e per un attimo ebbi paura davvero. Leggendo il titolo qualcosa però m’incuriosì, tornai a fissare quell’uomo dietro il cui naso faticavo a vedere l’intero viso: “Moby Dick? Mi dispiace, mi scusi”, non dissi altro e, probabilmente, nemmeno quello tanto la mia voce si era fatta timida e tremante. Improvvisamente lo vidi raccogliere i libri, con le lunghissime dita riannodare il laccetto che li legava e con un dito, vi giuro che ebbi nuovamente terrore, tirarmi un buffetto sul nasino all’insù. A quel punto si erano radunati tutti gli amichetti per vedere quel che stava succedendo, ma io non mi accorsi di loro: ero intenta a scrutare dietro a quell’ossuto naso cosa stava pensando il crudele bibliotecario e in quale modo me l’avrebbe fatta pagare. Per quel giorno e senza alcuna spiegazione fui salva: l’uomo si ritirò al suo tavolo ed io fui travolta dalle domande degli altri bambini. Lavorai di fantasia, come al solito.

Il giorno seguente non mi persi l’appuntamento, entrando nella sala lo vidi seduto al solito tavolo, con la testa tuffata in montagne di libri. Chissà cosa stava architettando. Mi sedetti a fare i miei compiti, come sempre mi persi dopo neppure cinque minuti nei titoli dei libri che mi circondavano. Passavo da uno scaffale all’altro percorrendo delle mezze maratone, visto che ci mettevo delle ore per decidere, poi, complice la stanchezza, cedevo e sceglievo.

Ero arrivata così, tutt’altro che volutamente, vicino allo scaffale dove stava anche l’affilato bibliotecario. Quando me ne resi conto, era ormai tardi: l’uomo mi stava osservando da un po’ e mi si era avvicinato. Magro com’era, non aveva fatto alcun rumore scivolando lungo lo scaffale. Credo fosse rimasto enormemente stupito dal fatto che non mossi un muscolo per fuggire. Certo, lui mica poteva sapere che era stata la paura ad immobilizzarmi e, perciò credo, sorrise.

Per qualche settimana, in biblioteca si svolse una vera e propria sfida con lui che faceva di tutto per spaventare i ragazzini che nei pomeriggi si rincorrevano fra gli scaffali ed io, dal mio tavolo, fra uno sguardo dalla finestra e l’altro, a far finta di leggere qualche libro, cercando di trovare un suo punto debole. Dovevo far vedere che non lo temevo, in fondo se mi aveva sorriso, non poteva essere tanto crudele quel bibliotecario. Ero decisa a capirci qualcosa di più, nonostante temessi una sua reazione o chissà cosa. Dovevo stare attenta, mi ripetevo.

Fu tutto inutile, mi prese d’improvviso alle spalle: riconobbi immediatamente le sue mani, chi altro poteva avere dita così lunghe e magre? Era dietro di me, ormai era fatta, finita. Sedette al mio fianco, la poltroncina era decisamente sproporzionata per un uomo della sua altezza. In quella posizione sembrava avere un accenno di gobba, ma era talmente magro che si capiva essere il risultato di un semplice effetto ottico. Teneva nelle mani i suoi libri avvolti nel laccetto smeraldo con i ricami rossi. Mi fissò dritta negli occhi, la testa leggermente abbassata, in modo che il naso non impedisse la visuale. Occhi tondi, piccolissimi, minuscoli anzi, color nero pece. Soltanto da alcune angolazioni si poteva riconoscere la pupilla, e comunque rimaneva il problema dell’ingombro di quel naso ogni qualvolta spostasse il capo. Forse comprese cosa stavo osservando incuriosita e fu sicuramente per quello che mimò il gesto, quello che tutti facevano nel quartiere per riferirsi a lui. Rimasero tutti di sasso. Io scoppiai a ridere, senza pensarci, senza paure. Per l’attimo in cui mimò quel gesto, il suo viso mi apparve come una delle cose più dolci del mondo, nonostante quel naso, anzi, quel naso ora gli donava. Non so se lo spiazzai o se, come ogni bimbo che ride, divenni contagiosa, ricordo però che lui scoppio in una risata sonora. Rimasi immobile a quel punto, trattenni il fiato nel tentativo di trovare il giusto modo per porgli una domanda quantomeno sfacciata. Anche questa volta giocò di anticipo e senza dire nulla si alzò insieme al suo plico, sfilò un libro lasciandolo sul mio tavolo e tornò a sedere al suo posto rituffandosi nella lettura.

Ci misi un po’ prima di afferrare a piene mani quella copertina, mi sincerai di essere sola, quasi stessi per aprire il diario segreto di quell’uomo. Il gabbiano Jonathan Livingston, mi parve un bel titolo, anche se non ero sicura della pronuncia. In breve tempo lo lessi, anche se carpirne profondamente il senso era una meta ancora lontana. Tornai in biblioteca, riposi il libro accertandomi che quell’uomo mi vedesse. Attesi qualche pomeriggio, finché lui tornò al mio tavolo, questa volta evitò la scomoda poltroncina, senza dire nulla mi lasciò un altro libro, sorridendo. Questa scena prese ad essere una consuetudine, nessuno diceva mai nulla, ci si limitava a qualche sguardo, un sorriso tutt’al più. Io avrei voluto parlargli: ogni volta immaginavo grandi discorsi, ma a quell’età non era cosa facile fare i conti con le proprie paure e timidezze. Leggevo e rileggevo i libri che mi lasciava amorevolmente sul tavolo. Smisi anche di indagare su di lui, era tutto inutile, sembrava nessuno gli fosse amico o sapesse quello che tanto volevo sapere. Se rideva probabilmente poteva parlare, sentire dicevano in giro sentisse benissimo.

Questa volta fui io a giocare d’anticipo. Scrissi una lettera, la indirizzai al mio crudele bibliotecario. Era invadente, povera di parole e di una schiettezza disarmante. In pratica, gli chiesi di poter comunicare con lui tramite carta e penna: gli avrei lasciato nei libri le lettere, che ne facesse poi quel che voleva; io non lo temevo come gli altri, ‘lo avrei stracciato con la fantasia’. Misi la lettera all’interno di quel plico di libri l’indomani: quando si sedette per lasciarmi un libro, infilai di nascosto la lettera sotto il laccetto smeraldo con i ricami rossi. Ricordo che mi sudavano le mani.

Il pomeriggio seguente in biblioteca mi ero seduta al solito posto, lui era già al suo. Alla solita ora, quella della sua pausa caffè, invece che dirigersi alla macchinetta, venne al mio tavolo prendendo posto su quella poltroncina, nuovamente in quella strana posizione. Questa volta era serio in viso, cercò con buone probabilità di spaventarmi. Lo guardai decisa, testardamente cocciuta gli mimai il gesto del naso, quello per cui lo conoscevano tutti, aggrottando le sopracciglia in modo esagerato. Lui scoppiò in quella sonora risata, quella che ormai mi ero convinta fosse stata un’allucinazione. “Perché non ti faccio paura?” Presi fiato, quell’uomo non era muto, parlava ed aveva una voce terrificante, questo sì. Stridula quanto un gesso sulla lavagna, un’unghia stridente sul vetro o peggio ancora. Suo malgrado, ai miei occhi di bambina, parve estremamente divertente. Lo guardai in silenzio, incredula. Se ne accorse subito, ma non gli diedi il tempo di scappare com’era solito fare: “Non ho paura di te – bimbetta ostinatamente cocciuta – ora ho capito perché non parli mai con noi bambini.” Lo spiazzai di certo, ma non la prese a male, ne rise di gusto.

Passarono così molti pomeriggi di studio, lui ogni tanto sedeva con me, raramente parlavamo, avevamo preso a scriverci lettere epistolari per parlare dei libri che mi lasciava e che, ora, anch’io avevo cominciato a consigliarli. Avevamo gusti e pareri spesso contrastanti ma ci piaceva fantasticare su finali alternativi, ironie della sorte e stranezze della narrativa. Arzigogolare con le parole avevamo preso a definire certi momenti: conosceva tutti quei giochi d’iniziali, nonsense e contrari, rebus e indovinelli che si possano immaginare. Era uno spasso letterario che avrei preferito incontrare da adulta e, lui, un uomo mite che cercava di tener ordine fra i suoi scaffali. Le uniche gioie della vita che gli tenevano volentieri compagnia erano i libri, disposti finanche ad ascoltare la sua voce stridente.

Un pomeriggio qualunque, anche se ormai ero cresciuta, con le scuole ancora chiuse e gli studenti impegnati a godersi le vacanze, mi ero recata in biblioteca: dovevo raccontare al mio ‘crudele’ bibliotecario dove ero stata, dovevo dirgli come era New Orleans, i suonatori, i locali, i poliziotti a cavallo e le donne. Tutto come nei libri, come lo avevamo immaginato, solo ancor più movimentato, più vivo. Mi ero ormai abituata alla sua voce, sempre più flebile negli anni, ed anche se non ci vedevamo spesso, il vizio di scriverci non lo avevamo certo perso. Era così, nello scriverci che avevamo iniziato a conoscerci, anche se nessuno in realtà raccontava mai di sé, si trattava più che altro di un gioco, un intrattenersi; eppure, in quello strano modo, eravamo riusciti a comprenderci su tantissime questioni.

Quel giorno arrivai di corsa in biblioteca, lui non era lì. Tornata, l’indomani vi trovai una signora, teneva in mano una scatola di carte, le chiesi dov’era il bibliotecario. Lo feci così, senza pensare, diretta. Lei si strinse nelle spalle, si sedette e pianse in modo sommesso, delicato. Mi consegnò la scatola di carte, riconobbi le ‘nostre’ lettere. La guardai bene questa volta. Vidi quelle mani, lunghe e magre, le dita affilate e storte, quel naso adunco. Non dissi nulla, lei vide il mio plico di libri e accarezzandolo sorrise. Le dissi di farsi forza e dolcemente, con una voce meravigliosa, mi rispose che suo fratello le aveva parlato di me, aggiunse semplicemente ‘grazie’. Non capii, almeno fino al funerale, quando mi spiegarono che il ‘mio bibliotecario crudele’ aveva ripreso ogni tanto a parlare, da qualche anno a questa parte, nonostante quella terribile malattia alla gola. Seppi che era stato un bravo cantante, che la malattia se lo era rosicchiato pezzo dopo pezzo; ripensai all’ironico bibliotecario, a come rise quando gli dissi della sua voce, a come non abbia mai lasciato trapelare nulla. Sorrisi, stringendomi al mio plico di libri nel laccetto. Quel giorno c’era una lettera per lui in quel plico, strangolata da quel laccetto, come mi sentivo io. Allontanandomi pensai a quando, in un pomeriggio assolato, quell’uomo aveva appoggiato, con tutta la delicatezza e l’eleganza immaginabili, il suo plico di libri legati in quel grazioso, quanto strano, laccetto smeraldo sul tavolo della biblioteca sciogliendolo con dita affilatissime. All’epoca, avevo pensato: “Che se ne fa di tutti quei libri in una sola volta? Uno, non basta e avanza?” Ero bambina, chi se lo poteva immaginare che anch’io, un giorno non molto lontano, avrei portato il mio plico di libri in quel laccetto smeraldo con i ricami rossi?

Non ho mai smesso di scrivergli, nemmeno oggi. Chissà se lui legge ancora.

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