di Lara Sirignano
Quanto vale uno scoop? Cosa si è disposti a fare, cosa si è pronti a sacrificare per arrivare prima degli altri, per avere una notizia o un particolare in più della concorrenza? Chiunque faccia il mestiere di giornalista, non serve certo essere Bob Woodward, se lo sarà chiesto almeno una volta nella sua vita professionale.
C’è chi sostiene che in nome del diritto-dovere di cronaca si possa tutto, che non esistano limiti perché il lettore deve sapere. Sempre. Tutto. A ogni costo. E pazienza se si mandano in malora indagini, se si stritolano le persone, se si fa del male, se in mezzo ci sono minori a cui si può rovinare l’esistenza. I “puristi” della professione tirano dritto, incuranti di chi e cosa resti sotto le ruote dell’informazione, un caterpillar che può e deve passare sopra tutto.
In quest’ottica mettere in rete il video di un uomo che muore bruciato tra sofferenze atroci e passare in tv le immagini del suo assassino diventa doveroso. È uno sporco lavoro, ma qualcuno deve farlo, perché la realtà va raccontata senza filtri, senza mediazioni, quando invece il nostro compito è proprio mediare: essere gli occhi e le orecchie di chi ci legge, di chi ci ascolta. Fare da tramite nel modo più onesto possibile tra i fatti e chi li vive solo indirettamente, attraverso di noi.
Ecco, io credo che, spesso, quelli del giornalismo a ogni costo richiamandosi al diritto di cronaca tentino solo di nobilitare ambizione, mancanza di scrupoli spesso figlia di una totale assenza di cultura, desiderio di emergere per lasciarsi alle spalle la palude del precariato. Sempre più di frequente, cioè, mi accorgo che informare è l’ultimo degli obiettivi di chi fa il mio mestiere. E che in ballo c’è solo il desiderio di avere due righe di verbale in più, di dare il buco al collega dell’altra testata, in una guerra tra pochi di cui il lettore è totalmente ignaro. Sul terreno di questa competizione insana, però, capita che restino morti e feriti.
Penso al povero clochard e ai suoi familiari, di cui abbiamo violato tutto. Senza alcuna compassione, senza alcun pudore neppure davanti alla morte. Mi si dice che le immagini servivano a far comprendere l’orrore del fatto: balle anche queste. Noi abbiamo, o dovremmo avere, se fossimo mediamente alfabetizzati, uno strumento unico per far cogliere, a chi ci legge, quel che accade in tutte le sue sfumature: la parola. La parola, mi ha insegnato un collega, può tutto. Si può scrivere tutto, basta scegliere le parole giuste. Con le parole si possono descrivere compiutamente il male, il degrado, l’abiezione, la tragicità, l’insensatezza di certi gesti e la follia senza calpestare, però, la dignità dell’uomo. E con i filtri e le cautele che le immagini, per loro natura, non possono avere.
Il primato della parola vale sempre. Anche nella storia del clochard. Forse, però, raccontare è più impegnativo, scegliere i termini giusti, dosare virgole e incisi, mediare, è più difficile che sbattere in Rete il video fregandosene che, ad esempio, possa guardarlo un bambino. O che uno dei tanti decerebrati che popolano internet e non solo possa essere tentato dall’emularlo.
C’è poi un altro aspetto su cui secondo me il giornalista dovrebbe interrogarsi. È più importante che il cittadino sappia tutto e subito, anche quando questo può mandare al diavolo il lavoro degli investigatori, o abbiamo il dovere di fermarci, aspettare due ore, due giorni, due mesi, se è necessario, per consentire a chi fa un lavoro fondamentale quanto il nostro di scoprire la verità? Io penso che il diritto di informare, in certe occasioni, debba essere “sacrificato”, che lo scoop non valga il pericolo di un assassino che scappa. Penso che di limiti ne abbiamo eccome. E pure di responsabilità.
Anche se, è inutile nascondercelo, la rinuncia a uno scoop avrà solo il plauso della nostra coscienza.