4 Agosto 2010, Hamedan (Iran) e 13 Dicembre 2009, Milano (Italia).
Statuette come dinamite e granate come petardi da festa del paese. Avvenimenti da mettere a tacere come blasfemie verso Allah e buttare nel buio scantinato della non-storia, o da gonfiare fino a farle esplodere dentro la testa della cara amica opinione “pubblica”, da fare brillare – proprio come la dinamite – su giornali e TV. Due uomini forti, due uomini fatti “da se”, due uomini del “popolo” e due capi del “popolo”. Eppure colpiti proprio lì, durante la trionfale marcia in mezzo al “loro” “popolo”, ed è per questo che l’affronto fa più male al cuore del capo.
Il 13 Dicembre 2009, a Milano, durante un comizio del Premier Silvio Berlusconi – di quelli per mantenere gli stretti contatti con i suoi fan – un dissoluto e temerario pazzo “fazioso”, scaglia con inaudita violenza una riproduzione in miniatura del Duomo di Milano contro il volto del Presidente del Consiglio, mentre mamma-duomo guarda l’accaduto dall’alto della piazza, temendo più per la sorte della figlia che per quella dell’illustre concittadino. Pochi secondi bastano a Massimo Tartaglia – folle di professione e “fazioso” di hobby – per sorprendere le super addestrate guardie del corpo del Capo e provocare sul volto del Cristo un’impressionante numero di lacerazioni, che Il Silvio è incredibilmente pronto a coprire e tamponare con un sacchetto di plastica nero, inspiegabilmente nelle sue mani al momento dell’accaduto. Senza far riferimento alle controversie della vicenda, ricordiamo bene quali furono le iraconde dichiarazioni, le commoventi interviste, gli appassionati appelli al cielo dei fedelissimi, e il susseguirsi di notizie su notizie, scoop su scoop, le indagini mediatiche sulla vita dell’esecutore materiale come sui responsabili morali – i “faziosi” mandanti ideologici – dell’attentato, e ancora, le folle di giornalisti accampati di fronte all’ospedale S. Raffaele, gli addolorati sudditi uniti in straziante preghiera sulle reliquie sanguinolente del sovrano. Sembrava dovesse ribaltarsi l’ordine costituzionale, sembrava fosse stato messo in definitiva discussione il “mandato” del “popolo” al Ghe pensi mi, sembrava si attendesse a momenti la rivoluzione marcusiana dei matti e dei disperati, manipolata dai populisti “faziosi” e dai “pollai” televisivi, dai soliti “comunisti”, dai nuovi “catto-comunisti” e dal “popolo dell’odio” in genere. E le forze della ragione si erano subito scagliate contro lo squilibrato, con tale sentimento che neppure un ispirato Erasmo da Rotterdam – elevando alte le virtù della follia – avrebbe potuto salvarlo dal patibolo sociale. In un tempo pressoché nullo era stata svelata l’identità del malfattore, la vita sociale, quella professionale, gli affetti e le preferenze politiche della famiglia – naturalmente “faziosi”, “comunisti” ed (aldilà dell’evidente contraddizione) elettori del Pd –; ma il povero matto fu subito seguito – nella fila che porta alla ghigliottina – dai “seminatori di odio”, da chi – come prontamente ha sottolineato il valletto Bondi – “non sa tenere a freno la propria malvagità”. Ricordiamo benissimo la caccia alle streghe del ministro Maroni contro i gruppi di facebook inneggianti a Tartaglia, le scuse dello psicolabile e il misericordioso perdono di un rigenerato Premier, pronto alla nuova e rinnovata “discesa in campo”. E il nuovo motto. Ah, se lo ricordiamo il nuovo motto. “L’amore vince sempre sull’odio e l’invidia”. Poesia. Non va certamente dimenticato lo straordinario aumento della fiducia dei cittadini italiani nel Cavaliere – dopo la Passione –, +6%. E, infine, come scordare l’assoluzione dell’attentatore perché incapace di intendere e di volere, abilmente orchestrata dalle “toghe rosse”. Impossibile dimenticare un pezzo di storia italiana così ricco di eventi.
Il 4 Agosto 2010, ad Hamedan, 350 chilometri da Teheran, il corteo giubilante che accompagna la passerella trionfale del “presidente” Mahmud Ahmadinejad, è interrotto da una inusuale esplosione, che desta scompiglio fra la folla festante. Fortunatamente – per il Capo, non certo per i giovani iraniani, senza lavoro, senza futuro, senza democrazia, senza libertà, obbligati a sostenere l’unica alternativa possibile al regime, costretti ad appellarsi al solito “male minore”, che in Iran si chiama Mir Hosein Musavi, e non è di certo un portatore di diritti e libertà – tale esplosione avviene ad un centinaio di metri di distanza dall’auto presidenziale, e provoca il ferimento di alcuni manifestanti. Subito all’erta. Il sito conservatore Khabar parla di “narenjak”, una granata, e parla di un arresto. Pochi minuti dopo, tuttavia, Ahmadinejad è sul palco allestito dentro lo stadio Qods, illeso, calmo, pronto ai suoi sproloqui contro Israele e contro gli Stati Uniti, pronto alle esaltazioni megalomani della “potenza” iraniana. La notizia della bomba, ripresa dalle emittenti televisive Al Arabiya e Future Tv, la notizia, ora, non esiste più. Una fonte dell’ufficio di presidenza nega che vi sia stato un attentato, e parla di “un grosso petardo lanciato da un sostenitore di Ahmadinejad, che in questo modo intendeva dare il benvenuto al presidente”. Ma c’è confusione, ora. I mezzi di informazione, pressati dai giornalisti occidentali da una parte, e dagli “inviti” governativi dall’altra, balbettano. La televisione iraniana PressTv parla di arresto ed “inchiesta in corso”, ma nega incredibilmente un qualsiasi “attentato o atto di violenza”. Ma, alla fine, chiarezza di posizioni è fatta. La versione del petardo diventa quella ufficiale in serata, supportata dall’agenzia ufficiale iraniana Irna, che accusa i mezzi d’informazione stranieri di ”pescare nel torbido e suggerire l’ipotesi di un tentativo di assassinio”. Gli iraniani, loro, però, a pochi giorni di distanza dall’accaduto, non hanno idea di cosa sia successo. Questo perché l’ordine è passato – e non è un tipo di ordine peggiore di quello italiano, né certamente migliore, è solo un altro tipo di ordine di regime, lanciato dal regime, in relazione agli scopi di regime, funzionale agli obiettivi che il regime intende raggiungere –, non è successo nulla. Ma gli iraniani ricordano altro. Ricordano quello che è imposto loro di non ricordare. Ricordano – e ricordiamo anche noi – la morte in diretta della giovane Neda Agha-Soltan, e le proteste di tutte le donne schiacciate dalla legge degli Ayatollah, da una Costituzione che riconosce la loro stessa esistenza come una “concessione”; gli iraniani ricordano le umiliazioni, gli arresti, gli stupri, le botte, gli assassinii dei Pasdaran e dei Basij, le violenze ideologiche e terroristiche della Guida Suprema Alì Khamenei – che sostituì nel 1989 il Grande Ayatollah Hossein Ali-Montazeri, rifiutatosi di accettare le sempre più numerose privazioni di libertà del “popolo” e i massacri degli oppositori –, i terribili soprusi su una generazione che vuole ribellarsi ad una Rivoluzione che non ha scelto, al silenzio internazionale di una situazione che pesa sui loro corpi come un Duomo di Milano in scala 1:1. E gli iraniani ricordano perché non possono farne a meno, perché vivono tutto questo ogni santo giorno mandato in Terra da Allah.
Nessuna ingenuità, nessun parallelo semplicistico fra due Paesi che hanno poco da condividere, fra due situazioni istituzionali da distinguere in maniera netta. Tuttavia, il punto su cui indagare – astraendo solo per un momento l’accaduto dal suo contesto – riguarda il perché di due atteggiamenti così distanti, in risposta a due eventi – quali le aggressioni ad un Capo di Governo – perlomeno affini. La risposta può essere dedotta – chiaramente solo a mio parere – dall’analisi del rapporto della comunicazione politica che vi è fra il regime e il cosiddetto “popolo”.
Uno Stato in cui una dittatura si instaura in maniera risoluta e violenta, nitida, tanto da poter individuare il momento esatto nel quale ciò avviene – nel caso iraniano, la Rivoluzione Islamica del 1979 – essa crea ex novo il sistema di diritto nella Nazione, palesando le differenze di condizione del “popolo” fra il vecchio ed il nuovo sistema politico e giuridico. Il neonato regime, caratterizzato da una forte instabilità istituzionale e sociale, si trova, così, sotto l’immediato bisogno di schiacciare le istanze che vi si oppongono, avvalorando gli effettivi rapporti di forza fra la nuova componente dominante e gli oppositori sconfitti. Necessità impellente del dittatore è, a questo punto, bloccare la libera circolazione delle informazioni all’interno e all’esterno del Paese, rendendo vaga l’idea – da parte dei cittadini – di ciò che realmente stia accadendo; rompere i cordoni di resistenza politica degli oppositori, attraverso l’arresto, e l’esilio o l’uccisione – al di fuori di un contesto di reale informazione – è ora di una semplicità disarmante. Tuttavia, i pericoli sono in agguato in ogni momento. I cittadini, coscienti della loro situazione fisica – seppur non informati delle vicende generali –, potrebbero essere portati ad azioni violente, che creerebbero indiscutibilmente grandi tensioni sociali, con la possibilità che sfocino in situazioni terroristiche volte al ribaltamento del regime stesso. La risposta del regime è adesso la creazione di un corpo armato volto alla “difesa della rivoluzione”, dando vita ad una politica del Terrore, mirante alla restaurazione ed al mantenimento di una situazione di quiete sociale. L’aggressione del dittatore, in questo caso, deve essere oscurata. In un sistema di contrasti sociali, essa, rischia di generare innumerevoli tentativi di imitazione, rompendo l’idea costituita di inviolabilità del potere; l’idea immutabile dell’onnipotenza del despote – i cui nemici, rigorosamente all’esterno dello Stato, sono i “nemici della rivoluzione – deve essere mantenuta.
Uno Stato in cui, al contrario, una dittatura si instaura in maniera pacifica e subdola, sotto una parvenza di legalità, la posizione di colui che il potere rappresenta muta radicalmente. L’abbassamento dell’asta del diritto è lento, ed avviene attraverso una formale conformità al sistema di garanzie e bilanciamento dei poteri in cui si inserisce; il dittatore ha la necessità di un appoggio costante da parte del suo “popolo”, in quanto esso è necessario per aggirare i vincoli costituzionali. Per fare in modo che il “popolo” instauri un rapporto diretto con il despote, Egli ha bisogno di controllare agilmente i sistemi di comunicazione politica e sociale del Paese, in modo da plasmare la realtà nazionale adeguatamente alle sue mire; inoltre Egli, per scongiurare il più possibile gli attacchi e le critiche alla sua persona, deve proclamarsi al “popolo” come difensore dei più alti valori morali del “popolo” stesso, deve presentare se stesso come la più affidabile garanzia contro poteri occulti, da lui stesso invocati per far tremare il la Nazione. Diceva Diderot a proposito dell’Ancien Régime:
«C’era fra la testa del despota e i nostri occhi una grande tela di ragno sulla quale la massa adorava una grande effigie della libertà. I chiaroveggenti avevano da tempo guardato attraverso i piccoli buchi della tela, e sapevano che cosa c’era dietro:la tela è stata strappata, e la tirannia si è mostrata a viso scoperto. Quando un popolo non è libero, la convinzione che ha della propria libertà è purtuttavia una cosa preziosa»
Fine ultimo del despote è quello di semplificare agli occhi del suddito la configurazione politica in due squadre contrapposte, in “noi” e “loro”. Al cittadino è chiesto prima di schierarsi, per poi farsi da parte e lasciare la gestione dello Stato nelle mani di colui in cui ha cieca fiducia. Ogni attacco al tiranno deve essere amplificato – ne devono essere inventati, se è il caso – perché mostra la reale presenza dei “nemici del popolo”, coloro che vogliono ribaltare “la volontà popolare”, oltre che ampliare la fama stessa e la fiducia nel Capo. Il despote, così, con la fiducia del “popolo” – in nome della difesa dai nemici interni – trae a se tutti i poteri della democrazia e, in nome del proprio mandato, della velocità e della “politica del fare”, assume il pieno controllo dello Stato. La dittatura della comunicazione si trasforma in dittatura reale.
Chi pensa di continuare a ragionare attraverso logiche che hanno permesso l’instaurazione di una dittatura della comunicazione, non può credere che essa non si trasformerà mai in una dittatura reale.