LEA GAROFALO E NON SOLO

Li chiamano testimoni di giustizia.

Non sono pentiti,

non hanno commesso alcun crimine.

 

 

Forse da piccoli, non hanno nemmeno rovistato furtivamente nella borsa della mamma, in cerca di spiccioli. Non si tratta di delinquenti, ma di eroi. Si tratta di uomini e donne, coraggiosi abbastanza da urlare a gran voce il proprio dissenso, da scrollarsi di dosso ogni colpa, da abbandonare una vita che non gli è mai appartenuta. Spesso però l’ardore non basta: sono bastati pochi colpi di pistola per porre fine alla vita di molti di loro. Brevi, letali istanti di terrore spazzano via la loro audacia. Ma non è il trionfo della malavita, non lo è affatto. Non dobbiamo lasciare che lo sia.

Lea Garofalo, giovane donna calabrese, è soltanto una della vittime dell’ignobile etica mafiosa: la salvaguardia della propria cosca al di sopra di tutto, al di sopra di sé e dei propri affetti.

In un triste giorno di Novembre, il 24, carlo cosco, ex compagno di Lea e padre della piccola Denise, lo dimostra all’Italia intera. In un appartamento milanese, la donna viene uccisa e il suo cadavere viene arso per ben tre giorni, in un quartiere di Monza. Non volevano che di lei restasse alcuna traccia.

Di Lea ci parla Paolo De Chiara, giornalista e scrittore originario di Isernia. Pochi anni fa il reporter ha pubblicato la sua prima opera, dedicata al coraggio della donna, alle indagini che sono seguite alla sua morte. L’esordio letterario di De Chiara non è che il manifesto di quello che si rivelerà il fine ultimo dei suoi lavori: la lotta alle mafie, di qualunque genere esse siano. Perché se la mafia è una montagna di merda, occorre che qualcuno continui a ricordarcelo.

 

Recentemente a Roma c’è stato un convegno di testimoni di giustizia. C’era anche lei?

“Sì, ero presente anch’io. I partecipanti erano pochi e le istituzioni assenti, ma il convegno ha avuto luogo ed è questo ciò che importa.”

 

Ha idea di quale fosse il numero dei testimoni presenti?

“Saranno stati una dozzina, su circa ottanta attualmente residenti in Italia. Alcuni di loro non sono stati autorizzati a partecipare all’evento. Credo fossero dieci.

Inoltre c’è stato un intervento a distanza da parte di un testimone siciliano, Angelo Vaccaro.”

 

Qual è la sua situazione al momento?

“Non è affatto soddisfatto del trattamento che gli è stato riservato: lo Stato non risponde alle sue richieste, quindi molti dei suoi problemi restano irrisolti. Si trova nella stessa condizione degli altri testimoni, qui in Italia.”

 

A parte qualche eccezione, molti di loro lamentano una bassa considerazione del loro ruolo. Le loro attività vengono spesso mortificate: in alcuni casi sono costretti ad abbandonarle.

“Sono problematiche reali, assolutamente. Ne abbiamo esempi concreti: basti pensare a Francesco Paolo o a Luigi Coppola, entrambi fortemente ostacolati.

Inoltre la maggior parte di loro non viene affatto informata su quale trattamento debba aspettarsi. Vengono accolti in hotel e strutture private, dove corrono il rischio di essere individuati. C’è chi, come Carmelina Prisco, ha avuto difficoltà a reperire il denaro che le occorreva. Sembra che lo Stato non le volesse anticipare alcuna somma, nonostante la sua evidente condizione di necessità.

In altre parole i testimoni di giustizia vengono ritenuti delle palle al piede, non soltanto per i malavitosi ma anche da chi li dovrebbe proteggere. Non sono visti come una risorsa, ma come un peso.”

 

Lea Garofalo, come sa bene, è un esempio calzante di quanto appena detto. Contravviene alle leggi non scritte della ‘ndrangheta calabrese, denuncia i membri della sua famiglia. Poi cosa accade?

“Innanzitutto vorrei fare una premessa: il libro sui testimoni di giustizia edito poco tempo fa, nasce proprio dal desiderio di approfondire la storia di Lea. Mi sono accorto che purtroppo ancora oggi viene considerata una collaboratrice, non una testimone. Persino i documenti processuali la definiscono così. Eppure c’è una differenza sostanziale: Lea non è una pentita, non ha mai preso parte ai crimini commessi dai familiari. Non c’è mai stata complicità né tacito assenso. Tutto ciò nonostante sia nata in un ambiente delinquenziale: il padre antonio era il boss di Pagliarelli, una frazione del paese d’origine di Lea, Petilia Policastro. Dopo pochi mesi dalla sua nascita, il padre viene ucciso e il suo posto viene preso dal fratello Floriano. Anche lui verrà assassinato, nel 2005. Naturalmente si tratta di omicidi legati alla mafia locale, al conflitto fra cosche rivali.

Ebbene, Lea tradisce il codice della ‘ndrangheta: una donna, una fimmina calabrese si era permessa di alzare la testa, di denunciare i loschi affari del convivente, sia in paese che a Milano.  

Attualmente le donne sono le uniche ad avere il coraggio di agire in un modo simile. È questa una delle ragioni che spinge al femminicidio: oggi quella calabrese è l’organizzazione criminale più potente al mondo, una vera e propria holding, ed è minacciata unicamente dal coraggio di chi svela i suoi traffici. E si tratta quasi unicamente di donne.

La forza della ‘ndrangheta non è legata soltanto al denaro, ma anche al legame di sangue. Sono tutti parenti ed è su questo che si basa l’intero sistema. Un tradimento interno alla cosca è una minaccia concreta, che mette a rischio l’organizzazione stessa.

D’altronde dopo le vicende di Lea molte madri ‘ndraghetiste hanno capito che per salvare i propri figli era necessario affidarsi alla magistratura. Hanno permesso agli inquirenti di conoscere una lobby criminale apparentemente impenetrabile.

Non tutte le madri però: consideriamo il caso di Rita Atria. Sua madre si è recata più volte sulla tomba della figlia, che ha colpito con rabbia, ripetutamente. Non riusciva ad accettare che Rita avesse violato il codice familiare.”

 

Solitamente però la mafia si limita gesti plateali come questo. Per la ‘ndrangheta è diverso: non dimentica, è più severa, è crudele.

“Beh, io credo che neanche la mafia dimentica. Del resto uno dei primi pentiti di cosa nostra, Leonardo Vitale, viene ucciso molti anni dopo aver denunciato la criminalità siciliana. Lo stesso si può dire di Ignazio Aloisi, assassinato davanti agli occhi della figlia quattordicenne, a Messina. Stavano acquistando la bandiera della squadra del cuore, proprio all’ingresso dello stadio.

Nel mio libro c’è anche la sua storia. Ho cercato di raccontare vicende non molto conosciute, ingiustamente taciute.”

 

A proposito dei suoi lavori: recentemente è andato in onda un film sulla vita di Lea Garofalo. È indubbio che il regista, Marco Tullio Giordano, ha preso spunto dal suo libro.

“Non ne ho la certezza. Del resto non sono stato contattato né da lui né dai suoi collaboratori.

Voglio precisare però che un regista del suo calibro ha tutto il mio rispetto: in passato ha portato alla conoscenza dei più la vicenda di Peppino Impastato, che in passato era stata dimenticata. Con lui siamo in buone mani. Ricordare Lea Garofalo dopo l’abbandono da parte dello Stato e dei concittadini era indispensabile.

Tuttavia mi duole dover constatare che il nostro è il Paese del giorno dopo: siamo bravissimi a commemorare chi in vita ha dimostrato un’audacia fuori dal comune. Pochi però li hanno sostenuti nei momenti in cui un supporto sarebbe stato decisivo. Quanto detto riguarda anche personaggi del calibro di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Certo, ricordare è fondamentale, ma non è sufficiente. E la storia si ripete: oggi il procuratore Nino Di Matteo sta subendo lo stesso trattamento toccato al giudice Falcone. Persino le istituzioni perseverano nell’errore, ostacolano la conoscenza di ciò che accade e di ciò che è accaduto vent’anni fa. Questo è un fatto gravissimo, perché la consapevolezza è uno strumento indispensabile per la lotta alle mafie.”

 

Tornando a Lea, qual è attualmente la situazione della figlia Denise?

“È parte del programma di protezione, risiede in una località segreta. Non ha contatti con il mondo circostante. Del resto questo trattamento è necessario: Denise ha avuto lo stesso coraggio della madre, ha accusato il padre, gli zii ed altri soggetti dell’omicidio di Lea. Grazie a lei, costoro sono stati condannati all’ergastolo.

Al momento Denise è sola. Ha poco più di vent’anni, è stata costretta ad abbandonare gli studi prima di poter conseguire il diploma. A quanto ne so, il suo sogno era quello di laurearsi il Lingue.”

 

Secondo lei quanto può influire sulla coscienza civile la proiezione di un film su Lea Garofalo?

“Tantissimo. Conoscere è il primo passo per cambiare ciò che non funziona. L’informazione è fondamentale. Lo sosteneva anche Don Lorenzo Milani, che spesso diceva ai suoi studenti: ‹‹ogni parola che non imparate oggi è un calcio nel culo che prenderete domani››. Questo significa che divulgare ciò che sappiamo è addirittura un dovere. Dobbiamo parlare a chi ancora non sa e lo dobbiamo fare servendoci delle parole più idonee, anche se forti. Ce lo ricorda Peppino Impastato, che in una Cinisi retrograda e timorosa aveva il coraggio di urlare che la mafia è una montagna di merda. Affermazioni come queste sono indispensabili per delegittimare, demitizzare le mafie.

Ma il primo passo per la delegittimazione è la conoscenza dei fatti. Se manca, tutto il resto è inutile.”