In tanti ricordano ancora gli spari, i boati che hanno scosso una nazione rimasta in ginocchio, gli spaventosi titoli di testa sui quotidiani nazionali. Sono trascorsi oltre trent’anni, ma dimenticare proprio non si può: è il dramma della lotta armata, il terrore delle sparatorie, lo sgomento dopo la strage di Piazza Fontana.
Se i più recenti manuali scolastici dedicano solo un paio di paragrafi al tormentoso decennio che ha reso l’Italia teatro di un’estenuante guerra civile, chi in quegli anni ha assistito al rogo di istituzioni, partiti e convinzioni, vuole ancora ricordare. Già, perché c’è ancora tanto da ricordare. Forse l’assordante fragore dei colpi di pistola ha soffocato la memoria delle battaglie condivise, dell’ardore che un’intera generazione ha dedicato ad una lotta non soltanto politica. Si è trattato di vincere retaggi che da secoli oscuravano le menti dei più, di spazzare via le prepotenze di chi la faceva da padrone. Si è trattato di una rivoluzione. Ed a parlarci di quanto accaduto in quegli anni tormentosi, ancora avvolti da una patina di ambiguità, è chi questa rivoluzione l’ha voluta sul serio. Barbara Balzerani, giovane militante al tempo delle Brigate Rosse, ha voglia di raccontare: lo fa attraverso i suoi libri, le sue dichiarazioni, le sue parole ancora bramose di giustizia. Perché in fin dei conti, era tutto ciò che si desiderava ottenere. Lo si esigeva, forse nel modo sbagliato. Lo si pretendeva, forse nell’unico modo possibile.
Che aria si respirava nei cosiddetti anni di piombo? Prevaleva la paura, la reazione o il desiderio di cambiamento?
“La definizione anni di piombo è stata ideata esattamente per gettare sugli anni ’70 un alone negativo. Piombo, per evocare oscurità e terrore. Nei fatti sono stati anni di conquiste eccezionali, di rottura con il monolite oscurantista che aveva governato il paese, e non solo il nostro. Il mondo si liberava dalle catene del colonialismo, delle dittature e della più retriva borghesia che aveva impoverito, ucciso, saccheggiato, sfruttato ovunque fosse riuscita a imporre il suo modello sociale. La spinta alla rivolta finalmente produceva i suoi effetti e cambiava la faccia di questo paese mettendo al centro i diritti universali, dall’istruzione alla sanità, alla difesa dallo sfruttamento e dalla nocività del lavoro, alle libertà individuali. La paura è arrivata con la reazione del potere, le bombe, il ripristino della legislazione fascista, i tentativi di colpo di stato. L’Italia era un paese a democrazia parlamentare circondato da dittature e anche per questo bisogna ringraziare la forza di quel movimento che ha impedito, in tutte le sue forme, la deriva peggiore e la perdita di potere delle classi subalterne. Questo con il protagonismo di una nuova classe operaia, non più piegata alle politiche compromissorie del sindacato e del partito comunista più forti d’Europa e che si è saldata con gli altri settori del proletariato.”
Cosa significava essere una giovane politicamente impegnata nel 1975? O meglio, cos’era la politica?
“In quegli anni la gente aveva smesso di credere che si potesse continuare a lottare esercitando le forme di violenza difensiva precedente. Il potere mostrava per intero la sua natura terroristica e in ambito internazionale alcuni avvenimenti furono decisivi. Soprattutto il colpo di stato in Cile dove un governo socialista legittimato da elezioni democratiche fu soffocato nel sangue all’indomani della nazionalizzazione delle imprese multinazionali americane. Quello in Argentina l’anno seguente non fece che confermare l’analisi. Come si poteva credere ancora nelle garanzie formali di cui straparlava il partito comunista che si apprestava a perfezionare la sua politica di compromesso storico con la democrazia cristiana? Il partito dei padroni, della chiesa, del malaffare, della comunicazione drogata, del mandato e della protezione delle forze che facevano il lavoro sporco per ripristinare i privilegi e le illibertà precedenti. In questo contesto la scelta della lotta armata era una discussione e una pratica niente affatto estranea al movimento che aveva consumato la stagione dei gruppi della sinistra extraparlamentare e che non voleva tornarsene a casa. Era una strategia vista come il salto necessario per continuare a stare all’offensiva e non arretrare sotto i colpi della reazione. Non è stata certo una scelta maggioritaria ma è potuta vivere tanto a lungo solo grazie ai tanti da cui ha tratto consenso politico e appoggio fattivo.”
I retaggi del patriarcato d’epoca fascista erano venuti meno del tutto o se ne avvertivano gli echi? Ha mai incontrato delle difficoltà nel portare avanti le sue convinzioni, solo perché donna?
“Il nostro era il paese più arretrato tra quelli capitalistici e la fine del fascismo non ne aveva cambiato radicalmente la fisionomia. Le tante anomalie anche sul piano della soggezione alla cultura clericale e al puritanesimo comunista avevano tenuto per decenni soffocata la spinta alla liberazione delle donne. É evidente che quel retaggio non era indifferente nelle relazioni tra i sessi neanche nei nuovi soggetti politici, tanto che le compagne che entrarono a far parte del movimento femminista si dicevano finalmente libere dalla politica degli uomini. Gli atteggiamenti machisti in quegli anni, soprattutto dei leader e leaderini, erano molti evidenti e stridevano con l’energia liberatoria che animava le compagne. Mi ricordo definizioni come angeli del ciclostile o i comportamenti predatori di capi e capetti del movimento. Non di tutti naturalmente, ma non è un caso che il gran numero di donne che aderivano anche sul piano militare alle attività dei gruppi non abbiano scalfito la granitica leadership maschile. Nella mia esperienza solo nelle Brigate Rosse ho vissuto rapporti paritari e questo non per virtù individuali ma per la radicalità della scelta armata in cui era stata bandita ogni idea di potere, di carriera e di culto della personalità. Come credo succeda in ogni condizione eccezionale di sospensione della quotidianità e dei ruoli tradizionali.”
Per cosa ci si batteva con tanta convinzione? E quale, fra le tante cause per cui lottare, sentiva più vicina?
“Nella storia capita che parta il tappo che ha trattenuto troppo a lungo la possibilità di un mondo altro. Io vengo da una famiglia in cui guerre, fatica, migrazioni, umiliazioni sono state il canovaccio dei racconti degli adulti. Sembrava fosse così, che nulla potesse cambiare e che l’unica cosa da conservare fosse la dignità. E invece stava cambiando tutto e per me è stato inevitabile starci dentro: rappresentava una sorta di riscatto della mia gente che ha subìto il peggio dal mondo precedente. Ultimamente un amico mi ha detto che ho un senso della giustizia che mette paura. Non so se è proprio così ma continuo a non sopportarne il peso.”
Chi era il vero avversario in questa sanguinosa lotta? Le forze reazionarie di estrema destra o piuttosto le istituzioni governative, lo Stato stesso?
“Noi siamo stati gli ultimi protagonisti del paradigma rivoluzionario novecentesco della necessità della conquista del potere. L’abbiamo coniugato aggiornandolo alle ormai mutate condizioni, con l’uso della guerriglia, ma l’attacco allo stato, il comitato d’affari della borghesia, rimaneva il punto centrale della nostra politica. E nonostante non avessimo centri studi a disposizione, siamo stati gli unici a capire la globalizzazione dei capitali, quello che chiamavamo lo stato imperialista delle multinazionali.”
Ma si trattava soltanto di politica, o piuttosto si può parlare ancora una volta di lotta di classe, di interessi socioeconomici in conflitto?
“Da Marx in poi la politica anticapitalistica è sempre stata la traduzione in teoria e pratica del motore della storia, ossia della lotta tra le classi. Non si tratta di sostituire un potere a un altro ma di modificare radicalmente il modo di produzione e cancellare il profitto dalle finalità sociali. E proprio su questo è aperta la ricerca dopo gli arretramenti e gli insuccessi del ‘900.”
Dopo la reclusione, penna alla mano si è impegnata a dare una diversa lettura del fenomeno brigatista. A chi erano originariamente destinati i suoi libri? Chi avrebbe desiderato che li leggesse?
“Il mio primo libro, Compagna Luna, nasce da un’urgenza di esprimere il dolore per una perdita, per uno spaesamento. Diciamo che è sgorgato come un fiume in piena sul portone del carcere la prima volta che mi sono ritrovata fuori. Nulla di quello che vedevo e sentivo raccontare mi riportava al mondo di relazioni e di lotte che sentivo mio. La narrazione ufficiale mi consegnava l’immagine distorta del grande errore da seppellire in fretta, di cui cancellare la memoria. Gli anni di carcere avevano fermato il tempo e non avevo in circolo gli antidoti al veleno del racconto del potere iniettato goccia dopo goccia nelle vene di chi aveva continuato a vivere in libertà. Priva di difese avevo iniziato a ripercorrere le strade della mia città alla ricerca dei luoghi della politica che amavo e che mi corrispondevano. Ma non li avevo trovati. Non c’erano più. Maciullati da un nemico che oltre alla vittoria aveva preteso la resa alle sue povere ragioni attraverso una pervasiva chiamata alla dissociazione da un pensiero e una pratica politica che aveva coinvolto i tanti che avevano voluto fare la rivoluzione. Non c’era più corrispondenza tra il mio sentire, l’esperienza del mio vissuto e il brutto film a cui mi toccava assistere. La parola era diventata rumore, la comunicazione sociale interrotta, la versione dei fatti mortalmente unilaterale. Scrivere è stato il racconto di un viaggio di ritorno che ha previsto la necessità di prendere distanza dal contingente. La strada che ho cercato per raccontare è stata quella di offrire la mia esperienza personale a chi potesse essere interessato a farsi domande, a chi non possedesse già tutte le risposte. Soprattutto, nella dominante menzogna diventata senso comune, non mi interessava fare una disamina su cause, effetti, i come e i perché, né cercare giustificazioni di fronte all’accusa imperdonabile di aver messo a nudo un re detronizzato. Volevo trovare comunicazione, condivisione e consolazione. Sapevo bene che mi sarei trovata di fronte all’interdizione del mondo letterario, quello che ha definito cortigianamente i margini stretti in cui può avventurarsi chi, come me, non ha diritto di parola. Quando ho cominciato a scrivere avevo ben presente questo vincolo. Non sapevo a chi mi stavo rivolgendo ma sapevo che avrei suscitato aspettative ineludibili. Avevo fatto la scelta di una mia esposizione personale per poter riattraversare il mio percorso di vita, una sorta di fotografia per riscattare anche tutte quelle di chi avevo avuto a fianco nella militanza e che venivano e vengono descritte come sagome vuote, come burattini appesi, come alieni venuti da chissà dove. Volevo offrire il racconto sul come s’è compiuta la mia scelta politica, le mie origini sociali, la fisionomia del mio percorso di vita per intero, e non pezzi messi in sconnesse parentesi. Volevo raccontare come avevo vissuto e la fatica di rielaborare le mie scelte. Non cercavo scusanti ma risposte a domande che quegli avvenimenti hanno lasciato aperte. Ma tutto questo ho potuto farlo perché coincideva con la mia esigenza profonda di restituire senso a un pezzo della storia di questo Paese ridotta a una vulgata deprivata di ragioni sociali e una condanna a senso unico. Adesso che sono al mio quinto libro questo problema credo di averlo superato: sono stati i miei lettori ad aiutarmi a farlo. Grazie alle mie pagine ho scoperto di non essere sola a pormi le stesse domande e a sentire il disagio di una rappresentazione che non coincide col sentire e con le esperienze di ciascuno. É un disagio che va approfondendosi a fronte di una versione dei fatti che va al di là della storia scritta dai vincitori e ha finito per somigliare a una pax sociale ottenuta con la paura e la menzogna. E sono contenta di non avere scelto la strada di una memorialistica più o meno rassicurante. Il giorno in cui una lettrice mi ha detto: ‹‹Grazie perché mi hai ricordato quella che sono›› Ebbene, ho ricevuto il premio letterario più ambito.”
Alla luce delle ultime considerazioni sulle vicende di quel caotico decennio, ha mai pensato di essere stata soltanto uno strumento, il braccio armato di una mente che non fosse la sua? Ha mai creduto di essere vittima di manipolazioni ad opera di istituzioni statali, persino internazionali?
“No. E nonostante i molteplici tentativi messi in campo con la grancassa della stampa più asservita che si ricordi, non mi sembra che nessuno abbia dimostrato il contrario. Questo accanimento dietrologico, oltre a rappresentare la fortuna di chi se ne è fatto interprete, non si spiega se non con un messaggio chiaro rivolto al presente: la rivoluzione non s’ha da fare e chi ci ha provato è stato manipolato.”
È vero, sono passati oltre quarant’anni dai primi scontri armati, ma sono sufficienti? Bastano per consentire a chi ha vissuto un periodo così tormentato per guardare al passato con acriticità a distacco?
“No. E’ stata un’esperienza troppo coinvolgente per potersela scrollare di dosso. Il tempo passato è stato gentiluomo solo perché ha consentito, a chi l’ha voluto fare, di rielaborarla in profondità senza abiure ma anche senza acriticità. Su questa strada le ferite rimangono ma si guadagna in libertà e rispetto delle conseguenze delle proprie scelte.”
C’è stato persino chi ha azzardato un parallelismo fra Isis e Brigate Rosse. Cosa risponde a simili affermazioni?
“Questo fa parte dell’infimo livello raggiunto da chi sta sul libro paga dei media. Disinformazione, sciatteria e nessuna corrispondenza con la realtà. Non aggiunge nessun elemento di comprensione ma diffonde paura a senso unico e soffoca sul nascere il pensiero critico. Non è poco in cambio di uno stipendio.”