Lettera aperta al Presidente del Consiglio sulla condizione delle famiglie italiane

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Egregio Primo Ministro,

sono passati quasi due anni dalla mia prima ed ultima lettera ad un’alta carica della Repubblica. Allora il Governo era un altro, come un altro era il destinatario dei miei reclami, dei miei spergiuri e delle mie blasfemie sputate sempre in compagnia di una buona dose di sangue sporco su un foglio virtuale dal basso impatto ambientale. Sono cambiate molte cose in questo intervallo di tempo, in un mondo nel quale non sembra cambiare mai nulla, ma dove tutto gira per tornare d’accapo e continuare un circolo temerario prima di cadere rovinosamente su sé stesso. Anche per lei deve essere stato un colpo essere catapultato in pochi giorni all’interno della giostra istituzionale italiana, e forse non del tutto un piacere, considerando la situazione che le è stato domandato di risolvere nel tempo di vita di un insetto. In questi due anni molte cose sono cambiate, ed altrettante ne sono cambiate in questi due mesi, anche se è come non fosse cambiato nulla, tranne un po’ di contegno in più nei visi dei politicanti smarriti di oggi, così riverenti nei suoi confronti e sempre così incapaci di scorgere l’Italia aldilà del muro, che cozzano rumorosamente gli uni contro gli altri come spermatozoi eccitati ed ignari un attimo prima del suicidio di massa contro le fredde pareti di un anticoncezionale. Sono cambiato anch’io in questo scorcio di Storia, ho intrapreso il mio viaggio lontano da casa, dalla mia terra, che si concluderà alla fine della mia vita suppongo, ed è cambiata l’Italia oltre il muro Onorevole Monti, tanto che i nuovi ed i vecchi muri che qualcuno in questo Paese sta’ tentando di erigere o di ristrutturare non dureranno signore, glielo assicuro e glielo prometto. Mi permetto questa sfrontatezza a cui non è stato di certo abituato dagli inchini e dalle umide attestazioni di stima e sostegno delle fazioni pseudo progressiste di un’Italietta da primo Novecento perché questo è ciò che vedo intorno a me, a partire dalla mia famiglia.

Mio padre alla sera rientra dalla fabbrica senza sapere se il giorno seguente avrà ancora un lavoro, se avrà ancora sé stesso, il suo corpo e la sua dignità di uomo. Torna dal lavoro, il portone condominiale lo apre con un calcio, la porta di casa con un pugno, ingoia il cucchiaio insieme al minestrone e piscia un vino nero come il catrame che ha nei polmoni dopo trent’anni di acciaio e fumo. Non il suo fumo – che pure non è poco – , ma quello miasmatico di mamma fabbrica, quello di zolfo che si respira soltanto sotto le ascelle di certi managers dallo sguardo rettile e dall’aureola di cartapesta incollata sul capo e dentro certi consigli di amministrazione. Mio padre, sempre lontano da ogni estremismo, poco affezionato al sindacato, oggi ha proferito per la prima volta in vita sua la parola “padrone”, seguita dalle quattro prime bestemmie della sua vita e da una mano fra i denti a voler sostituire la carne di vitello che da qualche tempo non vediamo più di una volta al mese a casa. Ma oggi è diventato ogni giorno, la fabbrica si è trasformata in una ex fabbrica, e mio padre ora sta’ in piedi ai margini della tangenziale ad aspettare un altro puzzo di zolfo alla giornata. Alla sera rientra a casa con la certezza del proprio posto sul guardrail, il portone condominiale lo apre sereno con le chiavi nella serratura, e lo stesso fa’ con la porta di casa, non mangia quasi mai e non urina più. La sera lo sento piangere e pregare, la notte urla nel sonno, la mattina un pugno alla porta, un calcio al portone e dentro ai lavori forzati.

Mio fratello a vent’anni è già morto, non vede e non sente nulla, si dimena e si strappa i capelli chiuso in un metro quadro di vita finta vista davanti al televisore, studia ma non pensa, fatica ma non lavora, non cresce, invecchia, ogni suo respiro sembra l’ultimo. Ieri è sceso in piazza per riscattarsi dalla sua nullità, per urlare la sua indignazione ad una generazione adulta fatta di colpevoli, di chi ha fatto e di chi – occhi chini e naso tappato – ha lasciato fare in un desolante silenzio, si è ribellato a chi voleva sfruttare i suoi anni, a chi voleva comprare il suo voto, a chi voleva rubare i suoi organi e la sua anima stessa. L’ha fatto, ma nessuno lo ha visto, e i pochi che gli sorridevano erano gli stessi che lo colpivano sulle ginocchia ad ogni passo. L’ho visto tornare con gli occhi insanguinati e straripare di rabbia e di giovinezza imprecando contro chi – con cappucci, fumogeni  e sampietrini – turbava di violenza i suoi sogni, e l’ho visto chiudersi in sé stesso per lasciare il mondo alla sua follia. Ieri sera, infine, l’ho visto imbustare lettere che odoravano di polvere da sparo, lettere sigillate con la lava dei suoi occhi e con la rabbia vomitata da generazioni smarrite nel fuoco incrociato di alta finanza e bassa politica.

Mia sorella ha le ginocchia rotte dalle gravidanze, dalla schiavitù e dalla religione. Stuprata ogni maledetto giorno dalla vita e dalla pubblicità, suo figlio è il figlio di due vecchi, e da più di otto mesi ormai non vive sua madre se non in tristi telefonate serali, mentre la guarda dentro un portafoto di legno marcio. A lei, una volta ogni sei mesi, un servizio al telegiornale ricorda che il tasso di disoccupazione giovanile in questo Paese supera il 30%, e che in fase di crisi sono le donne le prime a perdere il lavoro, e la fa’ pensare. Pensa al call center, alla linea erotica, al volantinaggio, alla cooperativa, all’impresa di pulizie, alla ricerca disperata di un lavoro per il quale poter finalmente buttare nel cesso diploma, laurea e master ed abbandonare in via definitiva  quei sogni di gloria irrealizzabili, «che tanto la puttana non la so’ fare», come dice spesso mestamente. Tre giorni fa ha riempito di acqua la vasca da bagno ed ha cercato di lasciarsi lentamente morire recidendosi le vene. Purtroppo non si era accorta che il sangue gliel’avevano già rubato da tempo.

Mia madre sospira più volte di quanto respiri, ma non è più avvezza a quei sospiri provocati da giovani amori estivi. I sospiri che la colpiscono sono quelli di delusione e strazio che sono soliti intervallarsi a singhiozzi strozzati e muco traboccante nelle fredde serate a fissare una cima di rapa e due tozzi di pane surgelato in un frigo desolato, a dormire di fianco al cadavere di mio padre ed a dover piangere il futuro di mio fratello, a crescere un figlio inaspettato che negli occhi porta l’immagine di una figlia lontana e a dover far tutto questo con un filo spinato che le cinge i fianchi, si annoda agli arti, le oscura i seni e le sigilla le labbra. Mia madre è la responsabilità signor Primo Ministro, il senso del dovere, la solidarietà, il patriottismo, il rispetto per l’altro, la coscienza dei propri diritti, la tensione verso la libertà, la volontà che supera i limiti, la fiducia nel mondo, la gioia per la vita. Il filo invece potete vederlo da voi nei Palazzi che conoscete, e non c’è sobrietà o moderazione che possa nasconderlo, perché mia madre sanguina, e la mia famiglia questo non lo vuole più sopportare dr. Monti.

 

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