E’ stato questo il tema della campagna di sensibilizzazione lanciata dall’Associazione Penelope, una delle più belle realtà associative nel campo della salute menatale che esistono nella provincia di Messina, che partendo dalla realtà vissuta giorno per giorno dai suoi operatori, dallo spirito della legge Battaglia del 1978 e dall’esperienza di uomini e donne imbottiti da psicofarmaci e stretti dalle cinghie di costrizione, ha accesso i riflettori su quella che dalle nostre parti può essere considerata ancora una tortura ovvero il TSO e cioè il trattamento sanitario obbligatorio.
Molti davanti alla parola tortura storceranno il naso e penseranno alla solita iperbole giornalistica, ma per chi vi è sottoposto è un dato di fatto, una realtà che supera il peggior incubo e che non viene attenuata dalla circostanza che si potrebbe trattare solo di una sensazione. Siamo in un campo che ancora non conosciamo bene, quello della mente, mentre conosciamo benissimo l’atra componente, quella del dolore che si amplifica in modo esponenziale proprio perché psichico. Su questa strada l’Associazione Penelope ha inteso tutelare i diritti civili delle persone sottoposte a trattamenti psichiatrici obbligatori e nell’incontro che si è svolto nella chiesa di Santa Maria Alemanna, tra il comitato promotore della campagna Liberamente e gli assessori della Regione Siciliana alle autonomie locali e alla salute, Patrizia Valenti e Lucia Borsellino, le proposte migliorative hanno trovato un terreno fertile di discussione, analisi e soluzioni operative. Si va dall’abolizione della contenzione fisica presso i reparti, tenuto conto che si trattasi di soggetti spesso e volentieri sottoposti a psicofarmaci ventiquattr’ore su 24 e a cui si vuole anche impedire la libertà di movimento, sino ad arrivare ad un sistema di video sorveglianza per prevenire gli abusi e le violenze psichiatriche, stante la difficoltà di autodeterminazione e tutela dei propri diritti da parte di persone la cui credibilità e invalidata dalla stessa diagnosi psichiatrica di “matto” loro imposta. Altra importante proposta è quella della preventiva notifica del provvedimento sanitario all’interessato affinché lo stesso possa far valere i suoi diritti senza trovarsi all’improvviso e inaspettatamente legato e costretto in una autoambulanza a partire e subire il trattamento imposto da altri. A cui si accompagna il riconoscimento della possibilità per le associazioni di categoria di intervenire per accedere in qualsiasi momento e senza preavviso dentro i reparti psichiatrici dietro richiesta o segnalazione dei ricoverati stessi o dei loro familiari per verificare l’eventuale abuso. Non si deve pensare che l’allarme lanciato dall’Associazione Penelope sia privo di fondamento o vuoto di contenuti giuridici. Basta pensare alle norme delle nostra costituzione che dettano il disposto che “nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario se non per disposizione di legge” o a quello che prevede che la “libertà personale è inviolabile e non è ammessa alcuna forma di detenzione, di ispezione e di restrizione della libertà personale se non per motivi dettati dell’autorità giudiziaria. Bastano queste poche righe per capire che un provvedimento amministrativo come il TSO, dove l’intervento dell’Autorità Giudiziaria avviene solo a posteriori e con la convalida da parte di un Giudice di una procedura già conclusa, si presta facilmente ad abusi e soprusi. Eppure lo spirito della legge Battaglia, che è stato trasfuso nella genesi del TSO, non solo era a favore dei soggetti svantaggiati ma sostituiva un vecchia normativa del 1094 che poneva l’accento solo sul ricovero coatto. Quello che è risultata carente è la prassi, una certa mentalità che vede il malato di mente come un recluso a cui devono negarsi anche i diritti più elementari. Non si tratta di soggettivare il trattamento sanitario obbligatorio, si tratta di cambiare cultura e riuscire a dare al malato la scelta della terapia a cui sottoporsi. Come dicevamo “vincolarsi volontariamente alla cura che può guarire”. Mettere il malato in condizione di scegliere la terapia da seguire. Oltre le parole, lo spirito e la legge, solo i fatti possono raggiungere lo scopo di meglio spiegare il senso di una iniziativa, quella dell’Associazione Penelope, tesa a tutelare l’uomo-malato piuttosto che la sovrastruttura (medici, operatori sanitari, amministratori, presidi ospedalieri ecc,) a cui la vita ci chiede di sottoporci.
Ed in questo senso la storia di un membro della famiglia dei Davì di Ali Terme meglio di altre può aiutarci a comprendere come il TSO può essere un mezzo foriero di soprusi ed illeciti. Della famosa famiglia dei Davì d’Ali Terme abbiamo notizie sin da prima del 1865 dove risulta che acquistarono il famoso convento dei Cappuccini ivi allocato. Il protagonista di questa allucinante vicenda, che chiameremo Antonio, oggi è morto da anni ma al tempo in cui lo conosciuto era una persona brillante ed intelligente. Un portamento fiero e serioso capace d’incutere reverenza anche se privo del braccio destro e della gamba sinistra. A suo dire, il frutto di un tentativo di suicidio non riuscito ed di cui non ho mai saputo ne la motivazione ne la dinamica con la quale è stato attuato (pare si fosse lanciato sotto un Tram per una delusione amorosa). I nostri rapporti professionali erano connessi con le sue pratiche d’invalidità civile, con quelle automobilistiche della sua autovettura “speciale” e con le beghe ereditarie che aveva con un vecchio fratello di ottantenne. Per farla breve un giorno mi telefona e lucidamente mi racconta che si trovava rinchiuso nel reparto di psichiatria del policlinico, che per un alterco con il fratello era stato sottoposto al TSO e voleva denunciare tutto e tutti. Vanamente ho tentato d’intervenire e solo a posteriore, cioè dopo i sette giorni di “reclusione” che la legge prevede per il TSO, sono riuscito a ricostruire la storia.
Era accaduto che il vigile urbano del paese, con il quale il nostro protagonista non aveva mai avuto buoni rapporti, presa la palla al balzo dell’alterco tra i fratelli e dietro le lamentele dei vicini avesse chiesto l’intervento del 118 e del medico condotto. Ecco che davanti ad una semplice lite domestica l’unica soluzione (pilotata? Voluta ? Cercata? ) è stata quella del TSO. Ora, a prescindere delle valutazioni sull’operato dei soggetti intervenuti su questa vicenda, quello che rileva è l’impossibilità materiale di qualsiasi soggetto (familiari, parenti, amici o avvocati) di poter intervenire nella procedura. Basti pensare che tempi tecnici per qualsiasi opposizione al provvedimento amministrativo sono ben più lunghi dei sette giorni del procedimento. Ecco del perché sono favorevolmente colpito dalla proposta fatta dell’Associazione Penelope di una notifica preventiva del provvedimento del TSO o di quella proposta che propone al paziente una scelta nella cura terapica a cui sottoporsi. Tutte proposte che hanno il fine di consentire anche al malato di mente la possibilità di sottoporsi liberamente al trattamento sanitario “obbligatorio”.
Pietro Giunta.