Monitorare gli istituti di pena è un compito assai complesso, soprattutto per un circuito impenetrabile come quello italiano, intriso di omertà e diritti violati. Pestaggi culminati in omicidi, abusi sessuali a danno di detenute soprattutto extracomunitarie, vessazioni e percosse con tumefazioni spesso a seguito di strani rituali.
Assurdo ma in Italia non esiste un Garante per la tutela dei detenuti, mentre esistono figure similari a livello regionale, provinciale e comunale ma nulla a che fare con il compito di sovraintendere al compito di tutela della popolazione carcerata e l’applicazione delle leggi e dei regolamenti da parte dei giudici e delle strutture penitenziarie.
Stefano Cucchi è stato arresto il 15 ottobre 2010 e trattenuto in carcere con un processo per direttissima con l’accusa di spaccio di droga. Entra in carcere in buono stato di salute, non ne esce più. Solo il 22 ottobre si apprende della sua morte. La notte tra il 15 e il 16 ottobre, Stefano subisce qualcosa di indescrivibile, un pestaggio che lo riduce in fin di vita testimoniato da evidenti ecchimosi ma di cui tutti negano la responsabilità.
“Stefano sta male”, ricoverato con urgenza presso il Sandro Pertini. Telefonata agghiacciante per la famiglia che nelle 24 ore precedenti avevano subìto prima l’arresto e poi la perquisizione del proprio appartamento senza che i Carabinieri trovassero nulla nella sua stanza. “Ditemi almeno per quale motivo mio figlio è stato ricoverato” ha chiesto un familiare di Stefano. La risposta vaga lasciava solo presagire l’amaro destino del povero Stefano.
La morte di Stefano Cucchi è riuscita comunque ad aumentare l’attenzione dell’opinione pubblica attorno allo status di vita dei detenuti nelle carceri. Grazie al coraggioso impegno portato avanti da realtà come l’associazione Antigone, la Caritas ma anche da privati cittadini e non ultimi i Radicali italiani, oggi in Italia si parla di riforma dell’istituto sulla pena detentiva e sul sovraffollamento e abbandono dei detenuti.
Un incubo chiamato carcere, dove i diritti sanciti dalla Costituzione sono disattesi ed in particolare l’art.27, dove si legge: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Ma quello di Stefano è un caso di cui si continua a conoscere poco ma che va a riempire le cronache penitenziarie che non avranno mai una risposta ragionata. La richiesta delle famiglie delle vittime nelle carceri attendono come è ovvio che gli autori delle violenze siano assicurati alla giustizia e che non siano semplicemente rimossi o sostituiti in qualità di funzionari, dirigenti, proprio perché resisi complici di negligenze o omissioni, constatando che le violenze nelle carceri sono spesso commesse da gruppi di secondini.
Altra storia. Detenuto muore a Lecce, rinuncia al cibo per protestare. Popo il suo nome, 38 anni di Bucarest. Alla fine di marzo aveva deciso di iniziare lo sciopero della fame perché voleva richiamare l’attenzione delle autorità sulla sua situazione. Voleva parlare con il magistrato – raccontano – ‘Il magistrato, diceva, mi deve ascoltare e lui mi deve liberare’, questa era la frase che ripeteva sempre”.
Destino ancora più tragico per Saidou Gadiga, conosciuto come Adgi, lasciato morire sotto la morsa di un attacco di asma con tanto di video camera di sorveglianza a documentarne l’agonia. Era il 12 dicembre 2010, colto da un malore nella cella di sicurezza della caserma “Masotti” sede del comando provinciale dei carabinieri di Brescia. Non sono bastate le interrogazioni parlamentari a tal riguardo o le inchieste giudiziarie per risalire alle responsabilità a carico dei carabinieri dopo l’evidente omissione di soccorso nei confronti del senegalese, nonostante la telecamera appostata sull’atrio antistante le due camere di sicurezza abbia registrato l’attacco di asma e l’esito mortale. Quel video è facilmente recuperabile. L’estremo dolore raccontato da quelle immagini, scuote ogni tiepida emotività e lascia atterrito chiunque.
Accade anche questo, non c’è umanità che tenga. Ritornano alla mente le immagini del film che suscitò parecchie polemiche:‘The Experiment’. Uscito nel 2001 e diretto da Oliver Hirschbiegel e sull’esperimento realizzato nel carcere di Stanford, nato per indagare sul piano psicologico il comportamento dell’uomo, affidando ruoli da interpretare distribuiti tra guardie e ladri ma che alla fine hanno degenerato comportamenti drammatici tra coloro che furono scelti per interpretare i detenuti, tanto da sospendere la stessa sperimentazione. Quegli stessi impulsi antisociali sono gli stessi alla base di ciò che accade in genere dietro le vicende fin qui descritte.
Malgrado le manifestazioni dei familiari a sostegno di una riforma del sistema carcerario e le proposte di numerose associazioni a difesa dei detenuti, in Parlamento non mancano figure e categorie culturali che si oppongono a qualsiasi forma di indagine su questi fatti ma addirittura di coprirli. In Italia manca il reato di tortura, quasi a voler proteggere gli effettivi responsabili.
Non dimentichiamoci i fatti della Scuola Diaz. Erano i giorni del G8 di Genova, le cariche della polizia sui manifestanti furono seguite da tutto il mondo. Lasciando alla destra lo scettro di collateralismo con i gruppi deviati che seminano violenza (anche provocando i manifestanti) macchiando innanzitutto il prestigio delle stesse forze dell’ordine, anche partiti che si iscrivono al centrosinistra non hanno mancato di ostacolare l’unico vero tentativo per fare chiarezza su quei fatti. Il Governo Prodi nel 2007 aveva proposto una commissione d’inchiesta sui reati del G8 di Genova. Votarono a favore i capigruppo di Ds, Margherita, Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi, contro l’Udeur di Mastella e proprio l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, alfiere delle piazze e difensore dei graduati.
E’ di quest’anno il film ‘Diaz’. Un’opera che lascia molti punti di domanda contro la rimozione operata da certa cultura e dalla politica.
Mauro Palma- ex presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura – il film di Daniele Vicari, è piaciuto. Anche perché, dice, “lascia volutamente aperti alcuni interrogativi fondamentali”. Ed è con le domande più che con le risposte – sembra dire Palma- che si combatte quella cultura dell’ ‘opacità’ che ancora persiste nei meandri della giustizia di casa nostra.