Scrivere di qualcosa che colpisce la tua terra, luoghi, vissuti, modi d’agire, reazioni che conosci a memoria, non è mai facile, perché il tuo coinvolgimento emotivo rischia di guidare la mano e le parole verso una rabbia che si è appiccicata alla tua pelle, come quel fango, soffocante, rigido, letale che ha fatto irruzione nei polmoni già umidi di una provincia stanca e umiliata. Messina, ancora una volta, colpita a morte dal braccio violento della natura. Barcellona Pozzo di Gotto, Saponara, oggi, esattamente come Giampilieri e Scaletta Zanclea ieri. Morte e fango, devastazione, senso insuperabile di vuoto, grazie ad uno Stato che ha scelto di bloccare Cristo e di farlo fermare chissà dove, di certo lontano dallo Stretto. Non c’è solo il maltempo ad uccidere e nemmeno le responsabilità dell’uomo, di chi non prevede o di chi ignora le previsioni, di chi non mette in sicurezza i territori nonostante gli allarmi e le tragedie recenti.
C’è anche il silenzio ad infierire, a oltraggiare la morte, e le poche parole ascoltate sono macigni che macchiano la dignità di chi, in mezzo all’oblio di un’Italia che di unito ha poco o nulla, scava, si adopera, ricostruisce, senza l’aiuto di nessuno, senza sms pubblicizzati in ogni dove. Non è mia intenzione aprire una disputa tra sventurati, sottolineando la mobilitazione nazionale per Genova e l’opposta indifferenza nazionale per Messina oggi e per Giampilieri 2 anni fa. Certo è, però, che quel silenzio mediatico, soprattutto nelle televisioni nazionali, fa male. Anzi fa malissimo. E non è una questione di orgoglio, non è il “solito piagnisteo meridionale”, espressione tante, troppe volte vomitata dagli aliti marci delle bocche leghiste. È semplicemente una realtà. Un fatto. Genova è Genova, Messina è Messina. Genova è una delle capitali della cultura italiana, la patria di Fabrizio De Andrè, Niccolò Paganini, Giuseppe Mazzini, Eugenio Montale, Fernanda Pivano, mentre Messina è insulsa, è la città da sventrare, da sacrificare per dare all’Italia un ponte tanto inutile per la gente quanto fruttuoso e importante per mafia, imprese (anche quelle del Nord) e politica.
Che crolli pure questa città, tanto a chi importa di vederla ancora accogliere i viaggiatori all’ingresso dell’Isola che non c’è? D’altra parte, a chi importa di quella gente e di quella cloaca di abusivismo, dove prima si violano le regole e poi si muore schiacciati dalla propria stoltezza? Abusivismo, ecco la chiave di tutto, secondo i pochi osservatori. Proprio così, perché chi ha deciso di parlare di quanto è accaduto, uscendo dal silenzio indifferente dei media, non ha trovato altro argomento, mischiando al fango mortifero quegli stereotipi anestetizzanti che non sono più in grado di nascondere il velato concetto del “se la sono cercata, se la sono voluta”. Come a Giampilieri, quando nessuno parlò degli allarmi ignorati dalla Protezione Civile nazionale, dalle istituzioni locali e regionali, ma tutti si affrettarono a descrivere un teatro di case abusive, di regole violate, perché è il Sud e con questo Sud c’è poco da fare: è condannato a soffrire a causa dei suoi vizi selvaggi. Genova, invece, no, lì è stato un insieme di cause, più legate al fato.
Per Genova è stato qualcosa di inatteso, di incredibile, perché non c’è abusivismo, non c’è mafia, non ci sono regole violate e quindi quel che è successo è spaventoso, nessuno mai poteva immaginarlo. Esattamente come nessuno immagina che a Genova ed in tutta la Liguria la prima azienda è divenuta la ‘ndrangheta, che controlla appalti, che domina perfino intere amministrazioni, qualcuna anche sciolta per mafia (è il caso di Bordighera). E nessuno forse sa che intere aree del capoluogo ligure sono state oggetto di abusivismo selvaggio, perché la criminalità ha costruito senza regole e senza incontrare resistenze. E si tratta proprio di alcune delle aree che sono state più colpite dall’alluvione. D’altra parte, in questo Paese, si crede ancora che le mafie padroneggiano da Roma in giù, mentre altrove tutto è fatto di lavoro e senso civico. E anche nella disgrazia ci sono differenze enormi.
Perché al Sud ci sono i piagnoni, i rassegnati, quelli che non si sbracciano e accettano tutto, secondo un fatalismo proverbiale che ha attraversato la storia e le numerose dominazioni. Al Settentrione, invece, ci si mette in moto, ci si organizza, si ricostruisce operosamente, come si è sempre fatto, perché l’Italia “l’hanno sempre costruita loro” e il fatto che la manodopera sia stata per la maggior parte frutto dell’emigrazione interna è solo un dettaglio insignificante. Il Sud, in realtà, è solo una discarica a cielo aperto, un luogo dove le città sono costruite come fossero gabbie per tonni in attesa della mattanza.
Francesco Merlo, giornalista siciliano di Repubblica, ha scattato la sua ambigua fotografia del Sud e lo ha fatto con queste parole, (inconsapevolmente?) intrise di quegli stereotipi irritanti e dolorosi che egli stesso poi, al termine del suo discorso, scaricherà sulla Lega: “Questa disgrazia provoca rassegnazione e diffidenza al Sud, addolorate alzate di spalle, una stanca pietà che molto di rado riesce a diventare solidarietà, aiuto e partecipazione, perché il Mezzogiorno d’Italia è uno di quei luoghi verso i quali gli uomini si forzano all’indifferenza, si costringono a non commuoversi, spengono prudentemente ogni moto dell’animo, annacquano il vino della solidarietà, perché è uno di quei luoghi in cui la disgrazia è considerata endemica, il prolungamento della normalità, una di quelle aree umane in cui è meglio farsi gli affari propri, non dare, evitare di intervenire, perché lì elemosinato ed elemosiniere rischiano di fare la stessa fine”.
A Merlo vorrei raccontare della mole innumerevole di mail, messaggi, post sui social network di gente, di siciliani, che volevano avere un numero a cui inviare un sms per sostenere le popolazioni del messinese, vorrei raccontare di quei volontari pronti a partire da ogni città dell’isola e stoppati (come mai?) dalla Protezione civile. Vorrei anche ricordare come a Giampilieri, 2 anni fa, soccorritori, vigili del fuoco, speleologi, cittadini, volontari erano siciliani, perché lì lo Stato non c’era e non c’è neanche adesso che molte vie di collegamento sono ancora inutilizzabili e molti luoghi sono divenuti lo spettro di se stessi. La gente non ha alzato le spalle, non si è fatta i fatti propri, non è rimasta indifferente.
Semplicemente sa di non trovarsi nella parte “alta” del Paese, sa di essere agli occhi del resto d’Italia un’Isola che non c’è, ed allora si è abituata a farcela da sola, nonostante tutto. Mobilitandosi, mettendo le mani tra pietre e fango, piangendo i propri morti con dignità silenziosa, asciugandosi le lacrime e rimboccandosi le maniche per trovare un minimo di maledetta normalità. Perché nell’Isola che non c’è, caro Merlo, del razzismo dei settentrionali non ci si cura più. Non se ne ha il tempo. Perché bisogna mettersi in viaggio oppure rimanere per difendersi dall’ancor più odiosa indifferenza di chi sventola bandiere di unità solo davanti a telecamere, fanfare e parate, per poi fuggire di fronte al fango ed alle responsabilità.
Massimiliano Perna