Un porto siciliano. Un ammutinamento pacifico. Uomini un poco pirati un poco lupi di mare. Coraggiosi e rivoluzionari.
Sono trentadue e da oltre quarantacinque giorni occupano la petroliera che loro stessi hanno costruito. La “Marettimo Mednav ” la nave cisterna più grande realizzata in Sicilia. L’azienda, CNT attraverso un sistema di scatole cinesi li vorrebbe licenziare, senza però rinunciare alla concessione demaniale. In quale scatola vanno a finire i soldi delle commesse? Può un’azienda che ha ancora ordinazioni andare in fallimento? I lavoratori pensano di no e vivono sulla nave.
Spesso la sera per non sentirsi soli suonano i tamburi per dire alla città ci siamo. Le mogli e i bambini rispondono battendo sulle pentole. Un tam tam disperato. Uno schiamazzo. Un concerto melodioso!Il racconto di Antonio, operaio occupante.
“ C’è da occupare la nave? Il cantiere? Io lo faccio, anzi, occupo una città. Ci devono sparare, arrestare. Non ci fermiamo. La nostra rabbia è che non c’è un valido motivo. Questa storia da qualsiasi prospettiva la guardi non ha nulla di normale, di legittimo”.Antonio è incazzato. Assieme ai suoi compagni vive una storia complicata. In cassa integrazione da più di un anno, sono costretti ad occupare la nave da completare perché il loro datore di lavoro la società Cantiere Navale di Trapani vorrebbe farla terminare ad altri. Difendono un loro diritto. “Siamo incazzati sul serio – aggiunge – le nostre donne ancora di più. Le dovresti vedere le nostre mogli, i nostri bambini. Tutti guerrieri. E a Trapani questo non era mai successo perché, tutto deve rimanere com’è”.
“Sai cosa abbiamo fatto stanotte?- chiede – un vero e proprio raid: quindici tute da lavoro appese ai lampioni del corso centrale di Trapani”. Adesso Antonio Di Cola parla con tono entusiasta. Ha l’aria di un bimbo pieno d’energia. Se non fosse per quelle rughe profonde che improvvisamente sono comparse sul suo volto. Come su quello dei compagni di lotta: i trentadue operai che da oltre quaranta giorni occupano la petroliera “Marettimo Mednav”, senza alcuna intenzione di arrendersi.
La loro storia inizia in un freddo giorno d’inverno e s’intreccia con la parabola del leggendario porto trapanese. Da sempre teatro d’interessi politici, imprenditoriali e mafiosi che ne hanno fatto terreno fertile per il fiorire di una miriade d’imprese. Almeno fino alla fine dello scorso decennio, quando gli equilibri economici s’incrinano. I lavori s’interrompono. E i cantieri chiudono, trasformandosi in boutique per velisti.
Il Cantiere Navale di Trapani, la principale azienda cittadina di proprietà della famiglia D’Angelo è in fase di smantellamento. “Non perché mancasse il lavoro – tengono a precisare gli operai – ma per una precisa scelta imprenditoriale. Hanno deciso di tagliare il costo fisso della manodopera e affidarsi di volta in volta a ditte esterne. Più economiche”.
A fare da sfondo alla manovra imprenditoriale dei D’Angelo – degna di un Marchionne di provincia – è proprio la costruzione della “Marettimo Mednav”, la nave cisterna più grande mai realizzata in Sicilia, orgoglio del senatore Antonio D’Alì e costruita dai lavoratori del ”Cantiere Navale di Trapani” (CNT), controllata dalla “Satin”. La Satin è una società che prende le commesse e le subappalta alla società che controlla, vale a dire Cantiere Navale di Trapani. Entrambe le società sono amministrate dalla stessa persona, il dott. Giuseppe D’Angelo.
L’appalto per la realizzazione della petroliera è stato commissionato da “Augusta due”, per un importo pari a quarantaquattro milioni di euro.
La società “Cnt” momentaneamente sono sotto procedura fallimentare. L’amministratore veramente unico “non vuole più i cinquantanove operai a casa sua” vorrebbe licenziare tutti e continuare a usufruire della concessione demaniale attraverso l’altra impresa, Satin, controllata, quasi interamente, dagli stessi amministratori.
“Per essere molto chiari – spiega uno degli operai occupanti – la Satin prendeva il lavoro e lo subappaltava alla CNT. I soldi, arrivavano alla Satin ma, non passavano alla CNT che lavorava, ma, accumulava i debiti”.
Gli operai intuiscono che in quei passaggi vi è qualcosa di strano fin dal primo momento. Subito scattano le segnalazioni ai sindacati. “ Ci consigliavano di stare tranquilli perché per noi non sarebbe cambiato nulla. Per questo, quando i fatti hanno iniziato a dare ragione alle nostre paure, abbiamo deciso di cancellarci in massa dalla triade Cgil, Cisl e Uil. Abbiamo deciso di creare il Collettivo dei Lavoratori in Lotta”.
Seguono i due mesi di presidio davanti ai cancelli dei Cantieri, assemblee e discussioni. La situazione però non cambia e il 23 dicembre, con un telegramma del tutto insensibile al clima natalizio, il proprietario annuncia il temuto licenziamento di cinquantanove padri e madri di famiglia. Loro non ci stanno. Così, mentre i tecnici, chiudono i cancelli trentadue operai con un’azione piratesca d’ammutinamento decidono di riprendersi ciò che hanno costruito con sudore e impegno. “Siamo preoccupatissimi per il nostro futuro ma siamo determinati. Non scenderemo dalla nave finché non ci saranno date delle risposte concrete. Ciò che vogliamo è il diritto, conquistato con anni di lavoro e dedizione, di poter vivere una vita dignitosa e garantire sicurezza ai nostri figli”. Fanno sapere i lavoratori attraverso L’isola dei Cassintegrati (isoladeicassintegrati.com), sito d’informazione che da gennaio segue la protesta con un diario di bordo giornaliero.
Gli obiettivi degli operai:
“Innanzitutto – spiega Antonio per conto di tutti – bisogna impugnare il licenziamento e noi vogliamo che se ne vada lui, che sia il padrone ad essere licenziato. Questa concessione è impossibile che sia lasciata a lui, che è un imprenditore incapace, che licenzia i suoi operai, che non prende lavoro, che non produce nulla. Come fa lo stato ad abbandonare un bene di questo tipo e lasciarlo a un cretino del genere? Perché? Diventiamo cooperativa e ce lo prendiamo noi questo bene”.
Antonio è uno degli irriducibili. Ha quarantasei anni e al Cantiere Navale di Trapani ne ha trascorsi ben sedici. Ricorda ancora l’eccitazione per la storica commessa. Il sole che logorava la pelle durante le ore di lavoro. E poi l’emozione di assistere all’inaugurazione di quella che mai avrebbe pensato sarebbe diventata la sua abitazione. “La vita qui è dura – spiega – Non abbiamo servizi igienici. Né luce. Per lavarci usiamo dei fusti d’acqua calda che i compagni fanno arrivare ogni mattina. Puntuali. Ma ciò che pesa di più è il non poter stare con mia moglie e con i miei figli, Nicola di undici anni e Adele di nove. Sono loro i veri eroi di questa protesta”.
Già, i bambini. C’è qualcuno che inizia ad andare male a scuola. Qualcun altro che ha tic nervosi e non parla più come prima. Le famiglie sono quelle che stanno soffrendo di più.
La vita sulla petroliera:
“Come passiamo la giornata? L’assemblea si può dire che è permanente. Si devono sempre decidere strategie, parlare con l’avvocato. Ogni tanto si organizza qualche cena di solidarietà, qualche concerto i cui fondi sono dati a noi. La sera si gioca a carte, quando si riesce a mettere la luce grande, oppure, ci sono i lumini da campeggio, a gas. Poi chiaramente è una convivenza forzata, c’è chi organizza più degli altri, chi si sacrifica più degli altri, chi coordina più degli altri non si è tutti uguali. Enrico per esempio ha tre figli, e il padre disabile e quindi ha problemi”.
Ciò che a bordo non manca mai è il cibo: teglie di pasta al forno, pollo, patate e dolci preparati con cura da mogli, parenti, amici e cittadini. Che ormai fanno la spola tra casa e porto. E c’è persino chi nel fronteggiare le necessità economiche ha scoperto una dote nascosta. Come la moglie d’Antonio. Che è diventata una bravissima pasticcera. E le sue torte tridimensionali sono famose nel web e in tutta Trapani.
Conclusione
Noi facciamo una vita molto ritirata qua sopra, per cui oggi andare a fare una manifestazione in mezzo alla folla m’innervosiva. Poco fa è venuto un ragazzo, di rifondazione comunista, aveva a casa una bandiera dei pirati, nera con il teschio, enorme. Ce l’ha donata e domani la metteremo sull’albero più alto. Ci vedono gli altri come pirati, noi ci sentiamo semplicemente dei padri di famiglia che vogliono vivere dignitosamente per fare questo c’è da occupare la nave, il cantiere io lo faccio anzi occupo una città. Ci devono sparare, arrestare. Non ci fermiamo. Sai qual è la nostra rabbia e la nostra forza è che non c’è un valido motivo. Questa storia da qualsiasi prospettiva la guardi non c’è nulla di normale, di legittimo, di fluido.
I tamburi: La sera tempo permettendo, perché qui se c’è vento che porta verso la città. Trapani, il nome deriva da una falce. Finisce a punta e c’è il mare da un lato e dall’altro. La nostra banchina è a cento metri di fronte c’è la città e noi suoniamo i tamburi. Se, non c’è vento o c’è una brezza da sud che porta verso la città ci sentono anche a chilometri e chilometri di distanza. E i nostri amici, ci mandano i messaggini dicendo la volete finire che dobbiamo dormire? Abbiamo messo i fusti grandi di olio vuoti, a centro nave in coperta e la sera verso le ventitré li battiamo come fossero dei tamburi per trenta, quaranta minuti. Per fare sentire noi siamo qui. Ci sentono dappertutto Un paio di giorni fa, mia moglie, con le altre mogli, con gli altri bambini, appena ci hanno sentito si sono messe nei balconi con le pentole. E mia moglie mi ha detto una cosa meravigliosa: pensavamo di essere gli unici e invece da varie parti della città si sentivano pentole che suonavano. Noi non lo sentivamo perché il nostro rumore era più forte, ma è stato bellissimo saperlo.