“Ho sempre creduto che la parola sociale fosse un termine assolutamente non idoneo a qualificare il teatro.” Così esordisce Enzo Caputo, regista de L’uccello cantore, presentato dall’Associazione Antiracket di Trapani presso l’Auditorium Rai Sicilia. “Quando si etichetta il teatro – prosegue Caputo – il rischio forte è quello di snaturarlo dalla sua vera essenza, di farlo diventare qualcos’altro: terapia psicologica o qualcosa simile alla pubblicità progresso.” Nonostante l’evidente scetticismo del direttore artistico la pièce teatrale è stata realizzata con successo, soprattutto grazie all’irrinunciabile contributo di Alma Passarelli Pula, una delle artiste della compagnia. “Non avevo voglia di spremere le meningi per evitare di cadere nell’ovvio o nel banale – spiega difatti il regista – così ho chiamato una delle mie attrici, Alma. Le ho chiesto di scrivere un testo, con un’unica condizione: le protagoniste dovevano essere tre donne.”
Scelta singolare, se non inedita. A cosa è dovuta?
“Nell’immaginario collettivo la mafia è maschia, mentre a mio parere le figure femminili sono elementi fondamentali dell’intero sistema: senza la madre tramandare le regole dell’onore, del rispetto e dell’obbedienza sarebbe molto più complicato. Inoltre è bene ricordare che noi lavoriamo su testi poetici, non prosastici e la poesia è naturalmente donna.”
E così è nato L’uccello cantore, storia di due donne condannate all’ergastolo ed ambientata all’interno di un carcere femminile. Maria e Costanza, di cui non si conosce l’età, sono nate da famiglie mafiose dello stesso paese, arrestate quando erano poco più che ragazzine ed in cella da circa vent’anni.
Che dire delle attrici principali del dramma? Sono l’una la nemesi dell’altra o fra le due si instaura un rapporto quasi empatico?
“Le protagoniste sono completamente diverse l’una dall’altra, nonostante abbiano affrontato lo stesso identico percorso di vita e ricevuto lo stesso tipo di educazione. Eppure non ci siamo soffermati sulla ragione di una simile differenza, abbiamo preferito lasciare che lo spettatore si dia una spiegazione in merito, qualora ne sentisse l’esigenza. La loro diversità è la chiave di lettura del dramma, anche se in fondo non c’è nulla da capire. Non temete di non capire, lascio ad ogni spettatore la sua verità.”
Ma basta porgere orecchio ai primi dialoghi per evincere quale sia la posizione di entrambe: Costanza risulta convinta e fiera della sua appartenenza ad una famiglia malavitosa, mentre Maria dà l’impressione di essere una vittima degli eventi, stanca della prigionia e desiderosa di venir fuori da un passato di crimini e sotterfugi. Ed è proprio lei l’uccello cantore della tragedia, una donna sfinita dalla reclusione e decisa a rivelare ai giudici i segreti della casta, al solo scopo di lasciarsi alle spalle un’esistenza che in fondo non aveva mai scelto.
All’inizio ha parlato di tre donne, mentre sinora ha fatto riferimento soltanto a Maria e Costanza. Chi è la terza presenza sulla scena?
“Beh, si tratta certamente dell’unico elemento che le accomuna: la figura materna, educatrice e custode dell’obbedienza. La scelta di un unico personaggio per le due madri serve chiaramente ad abbattere le differenze sociali che potrebbero esserci e che probabilmente ci sono nelle famiglie delle protagoniste e a renderle simili nella modalità educativa. Le parole pronunciate dalla madre in diversi momenti sono rivolte chiaramente a volte a Costanza e a volte a Maria, ma in realtà non c’è nessuna differenza se immaginiamo che probabilmente ognuna di loro quelle frasi le ha sentite pronunciare più volte.”
E così viene meno ogni barriera, almeno per il momento. Entrambe le prigioniere ricordano le parole della propria madre, parole pungenti, riferite con indiscutibile autorevolezza.
Interessante il coinvolgimento della madre delle protagoniste…
“Senza dubbio, la figura materna nella cultura mafiosa è molto affascinante. Spesso si dimentica quale sia il suo ruolo all’interno di una società, quella malavitosa, che viene dipinta come assolutamente maschilista.
In realtà è proprio la donna-madre che è responsabile dell’educazione e quindi dell’indottrinamemento dei figli.
Tutrice della continuità della tradizione mafiosa, si mostra pienamente consapevole della diversa forma di rispetto riservata alle femmine.”
‹‹Devota all’amore è la donna fedele, e difende gli uomini – reciterà una delle attrici, precisando così quali siano i compiti della donna nelle famiglie mafiose – ma non sono nostri gli uomini. Noi li serviamo.››
È l’accettazione incondizionata di una simile condizione anche da parte dell’universo femminile a rendere impenetrabile quel sistema familiare e collegiale che sta alla base di ogni clan mafioso.
Naturalmente quella della malavita è una strada senza uscita. Non c’è possibilità di vittoria quando si entra a far parte di un’organizzazione criminale, che sia per scelta o per caso. “Qualunque prospettiva si adotti o qualsiasi percezione si abbia durante la rappresentazione, la mafia risulterà sempre una sconfitta morale e sociale” scriverà Caputo, in un breve saggio sull’opera teatrale. Necessaria sarebbe dunque la divulgazione di quante più informazioni possibili su cosa siano le organizzazioni criminali, sul loro funzionamento sulle dinamiche interne alle cosche. Al bando la spettacolarizzazione degli eventi e i racconti della vita di persone di mafia che secondo Caputo contribuirebbero ad alimentare la “sindrome del mito”, di cui i ragazzi dei quartieri disagiati sarebbero vittime. “Dovremmo lavorare invece sul focalizzare le differenze fra noi e loro, farlo osservando la vita di tutti i giorni. Mostrare a cosa si va incontro quando si sceglie la strada del delinquere, a cosa si rinuncia. Tutto quello che si può perdere della bellezza di ogni giorno vissuto, quanto dura la vita agiata che le mafie ti offrono e a quale prezzo. La differenza fra il rispetto e la paura.”