Nemmeno una settimana fa la pietra dello scandalo per i salotti buoni in riva allo stretto era il sindaco in t-shirt e sandali. Il solito pierino che , non pago di aver gridato in faccia a Donald Trump in pieno G7 di fare la pace e non la guerra , aveva ribadito con una dura nota la volontà del Comune di Messina di non accettare contributi economici e sponsorizzazioni da indagati per mafia e corruzione e associati a logge massoniche.
E’ bastata un’operazione dei ROS e del Comando Provinciale dei Carabinieri , coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia e dalla Procura della Repubblica di Messina, per soffiare via il polverone di questa discussione e riportare l’opinione pubblica peloritana coi piedi per terra.
In riva allo stretto la mafia c’è . E stavolta non si tratta di manovalanza di quartiere intenta al massimo a scambiare voti con posti di lavoro in cooperativa o buste della spesa ma – stando alle parole del procuratore aggiunto di Messina Sebastiano Ardita – di “una cellula di cosa nostra, sovraordinata rispetto ad altri gruppi mafiosi locali , che quando si imbattono in questa entità fanno un passo indietro.”
L’operazione Beta ha fatto luce sugli affari di un’associazione mafiosa facente capo al clan catanese dei Santapaola, attraverso i legami di sangue di francesco e vincenzo romeo, rispettivamente cognato e nipote del boss nitto santapaola , protagonista di primo piano della storia criminale siciliana fin dagli settanta del secolo scorso.
Il gruppo ,è questa l’ipotesi investigativa suffragata da intercettazioni telefoniche e ambientali , non si comportava come una classica organizzazione criminale. Niente pistole in evidenza , né richieste di pizzo, né altri rituali mafiosi. I Romeo e i loro uomini preferivano dedicarsi alla gestione di società di servizi alle imprese, controllare l’assegnazione di grandi appalti ( si parla anche di Salerno –Reggio Calabria e di Expo), gestire le scommesse calcistiche, quelle sulle corse clandestine dei cavalli e le slot machines; e controllare l’attività di alcuni enti pubblici con clientelismo e corruzione. Gli affiliati alla cosca si servivano anche di informatori e “uomini di fiducia “ interni ad uffici pubblici. Fra gli episodi emersi dall’attività investigativa inquieta parecchio la vicenda dell’acquisto da parte del Comune di Messina di immobili da destinare ai baraccati di Fondo Fucile in vista del risanamento del rione. Un’operazione a cui poi l’organizzazione ha rinunciato ma che sarebbe stata resa possibile dalla collusione di alcuni funzionari del dipartimento urbanistica di palazzo Zanca.
Ma l’attività di questa particolare famiglia mafiosa si estendeva anche alla Calabria e aveva ramificazioni in tutto il paese. Secondo il comandante dei Reparti operativi speciali dei Carabinieri, generale Giuseppe Governale, “ la provincia di Messina si iscrive” così “ definitivamente al campionato del crimine che conta “ . Non più attività secondarie e parassitarie ma una “ evidente centralità dei messinesi nel collegamento fra catanesi e calabresi “ e una capacità di incutere timore e rispetto anche a imprenditori piemontesi e lombardi che si rivolgevano direttamente agli uomini dei Romeo “ per ottenere una mediazione che garantisse i propri interessi in Sicilia”.
Si spiega bene dunque così un elenco di provvedimenti di custodia cautelare che hanno colpito non i consueti piccoli boss di quartiere ma funzionari pubblici , noti esponenti del mondo economico come quel Carlo Borrella , già presidente dell’associazione dei Costruttori di Messina ed ex componente la giunta della locale Confindustria o l’avvocato Andrea Lo Castro, sul cui capo pendono le accuse di falsa intestazione di beni e concorso in riciclaggio di denaro proveniente da illeciti.
Sempre nell’ipotesi della Direzione distrettuale antimafia, l’organizzazione avrebbe letteralmente rovesciato le tradizionali priorità dell’agire mafioso “lasciando sullo sfondo” il consueto uso della violenza e dell’intimidazione, sfruttando invece sapientemente capacità manageriali e di interlocuzione e contiguità con “professionisti e ambienti istituzionali”.
Era veramente inaspettato questo salto d qualità ? I nomi di Carlo Borrella e della sua impresa , a voler fare uno sforzo di memoria, erano già citati in inchieste indipendenti come quella di Antonio Mazzeo , che già nel 2010 ricostruiva la rapida ascesa del personaggio nel mondo degli appalti pubblici. La vera novità consiste però nel vedere riportati fatti, cose e persone finora oggetto di illazioni e chiacchiere a mezza bocca finalmente in atti giudiziari sostenuti non solo dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia ma da elementi ben più difficili da contestare come quelli raccolti nel corso di una lunga attività investigativa.
L’inchiesta che ha condotto all’operazione Beta infatti è iniziata nel 2013 e certamente non è stato estraneo alla possibilità di portarla avanti il nuovo clima di fiducia fra istituzioni generato dal cambio al vertice del Comune e della Città Metropolitana di Messina e la collaborazione fra nuovi amministratori locali e Procura della Repubblica, più volte rivendicata sia dal sindaco Renato Accorinti quanto dai vertici della magistratura inquirente.
In attesa che la giustizia faccia il suo corso e che le accuse vengano confermate o smentite nei diversi gradi di giudizio c’è da augurarsi che l’insofferenza da alcuni mostrata verso gli aspetti più sopra le righe dei nuovi amministratori messinesi non oscuri la riconoscenza che si deve loro per aver contribuito a rompere antiche omertà e incoraggiato quella che potrebbe essere ricordata come una nuova primavera.