25 marzo 2013: le agenzie battono due notizie di grossa importanza nell’arco di pochi minuti. Entrambe riguardano due processi, entrambe hanno per oggetto la mafia. E tutt’e due coinvolgono anche politici. Fanno riferimento alla fase storica più drammatica d’Italia: quella che è nata dalle stragi del 1992-1993, in cui morirono Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, gli uomini e le donne delle loro scorte, i civili uccisi con le bombe a Milano, Firenze e Roma.
La prima notizia è uno stralcio della requisitoria del pm Nino Di Matteo al processo contro Mario Mori e Mauro Obinu, militari di alto grado del Reparto operativo speciale dei Carabinieri, accusati della mancata cattura di Bernardo Provenzano nel lontano 1995: “Questo è il processo nel quale Mancino ha palesato di non tenere in conto l’autonomia del vostro giudizio chiamando il consigliere del Presidente della Repubblica Loris D’Ambrosio, cercando conforto nelle più alte cariche dello Stato per evitare il confronto – ha detto il pubblico ministero Di Matteo, parlando di una delle telefonate intercettate fra Mancino e D’Ambrosio – Questo è il processo in cui testi particolarmente qualificati come ministri o membri delle forze dell’ordine hanno reso dichiarazioni contraddittorie e incompatibili. A molti è venuta la memoria solo dopo le dichiarazioni di Massimo Ciancimino”.
La seconda notizia, invece, è la conclusione del processo di appello della vicenda di Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia nei primi anni Novanta, condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa per aver favorito Cosa Nostra. “Vi è la prova – avevano scritto i magistrati nella motivazione della sentenza di primo grado, nel 2004 – che Dell’Utri aveva promesso alla mafia precisi vantaggi in campo politico e, di contro, vi è la prova che la mafia, in esecuzione di quella promessa, si era vieppiù orientata a votare per Forza Italia nella prima competizione elettorale utile e, ancora dopo, si era impegnata a sostenere elettoralmente l’imputato in occasione della sua candidatura al Parlamento europeo nelle file dello stesso partito, mentre aveva grossi problemi da risolvere con la giustizia perché era in corso il dibattimento di questo processo penale”.
C’è un nome che collega queste due vicende, apparentemente distinte e separate. E’ quello di Luigi Ilardo, infiltrato in Cosa Nostra nella prima metà degli anni Novanta per scovare il capo della mafia siciliana, Bernardo “Binu” Provenzano. E’ lui il grande accusatore dei vertici dei Ros dell’epoca. E’ lui che, il 31 ottobre 1995 incontra il padrino in un casolare di Mezzojuso, dopo lunghi mesi di lavoro in cui l’ex boss aveva ripreso contatti e confidenze dai mafiosi vicini allo “zu Binu”. E’ lui che, subito dopo l’incontro, rivela al suo referente, il tenente colonnello Michele Riccio, dove si trova il capo di Cosa nostra. Ma Provenzano verrà catturato solo nel 2006. Sul perché ha indagato la magistratura e il pm Di Matteo, incaricato dell’accusa, sostiene che “qui non si processa il Ros come struttura, ma una filiera di ufficiali che parte da Mori che obbedisce a logiche proprie di un servizio di sicurezza. Filiera che ha finito per assumere contorni di un gruppo parallelo al Ros che ha perseguito obiettivi di politica criminale. Questi militari erano il braccio operativo di Mori, a cui obbedivano scavalcando le gerarchie intermedie. Una squadra di fedelissimi di cui Mori ha disposto che il generale ha sempre protetto, promosso, come Ierfone, Damiano, Obinu, De Caprio, Scibilia, De Donno. Di questa cordata, allestita da Mori, loro fanno ancora parte”.
Lo stesso Ilardo è anche l’uomo che apre un primo spiraglio sui rapporti fra il fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri e la mafia. Nel febbraio del 1994 parla al tenente colonnello Riccio di un insospettabile esponente dell’entourage di Berlusconi in contatto con la mafia. Riccio in seguito capirà che si riferiva proprio all’amico palermitano del Cavaliere. Accuse gravissime, che secondo i magistrati che si sono occupati del caso sono collegate all’impegno politico di Marcello Dell’Utri, testa di ponte fra Cosa Nostra e l’allora imprenditore brianzolo amico intimo di Bettino Craxi.
A condurre la trattativa con gli esponenti del Ros a processo, che avrebbero voluto far desistere l’organizzazione criminale dal fare altre stragi, c’era don Vito Ciancimino. Nella sua cassaforte venne ritrovato un foglio A4 strappato: “posizione politica intendo portare il mio contributo (che non sarà di poco) perché questo triste evento non ne abbia a verificarsi. Sono convinto che questo evento, onorevole Berlusconi vorrà mettere a disposizione le sue reti televisive”. Una minaccia a Berlusconi, secondo i pm. Il figlio di don Vito, Massimo Ciancimino, sostiene che siano state tre le volte in cui la mafia ha ricattato l’attuale leader del Pdl. L’obiettivo era ottenere politiche compiacenti dal governo Craxi attraverso l’influenza di Berlusconi, agganciato per il tramite di Dell’Utri, che per oltre 30 anni ha avuto rapporti con boss di prim’ordine come Stefano Bontade, Mimmo Teresi e Ignazio e Giovan Battista Pullarà, e ha garantito a Silvio Berlusconi, che in cambio avrebbe pagato fior di milioni, la protezione delle cosche.
Qui si fermano le verità processuali sulle due vicende. Le conseguenze politiche di queste gravi accuse, circostanziate e supportate da elementi come testimonianze e documenti, non sono mai state prese.