L’appello di tutte le più alte istituzioni al senso di responsabilità dell’opposizione ha dato i suoi frutti, ed anche il Ministro Tremonti si è detto soddisfatto – e grato – dell’atteggiamento tenuto in aula al Senato da Pd, Idv ed Udc. Si sa che il pubblico ama la lusinga. 161 i si, 135 i no e 3 gli astenuti che hanno permesso ad una finanziaria uscita fuori dal cappello di Tremonti di passare alla verifica-flash della camera alta del Parlamento. 314 contro 280 i si che hanno rotto ogni indugio alla camera. Nessun emendamento delle opposizioni, nessun atto di ostruzionismo, solo le dichiarazioni di voto dei gruppi e gli appelli del governo a riempire l’aria dell’aula. È un momento d’emergenza e ci vuole unità d’intenti ci hanno spiegato tutti, a partire dal Presidente Napolitano. Ed è proprio nell’emergenza, nel dramma del «si salvi chi po’» che le nefandezze più assurde passano sotto silenzio, come rischiava di fare la norma salva-Fininvest prima che un’opinione pubblica che ha ancora qualche sussulto si rendesse conto dell’accadente. L’Italia non è la Grecia, e sarà per questo che ad Atene si è parlato di manovra «da lacrime e sangue» e qui quella che sta cavalcando verso il traguardo del taglio della spesa pubblica di più di 30 milioni di euro nel 2014 quasi la si definisce «una manna dal cielo».
«La salvezza non ci viene dalla finanza, può venire solo dalla politica» ha confermato nel suo discorso al Senato della Repubblica il ministro Giulio Tremonti. Ed è proprio la politica il fantasma di questa manovra finanziaria. La politica come capacità di prendere delle scelte, anche coraggiose, di parte. La politica come decisione ponderata e condivisa. E invece, i tagli lineari che la manovra impone non hanno alcunché di politico, e niente di politico vi è nell’affidare la risoluzione dei problemi economici italiani ad un pareggio di bilancio raffazzonato ed incapace da solo di determinare una linea politica da seguire. Il ministro afferma che perseguire il pareggio di bilancio significa perseguire il bene comune, e questo è indubbio. Ma perseguire il bene comune significa anche guardare oltre il pareggio, ed avviare politiche di risanamento del “mercato” del lavoro, di taglio delle spese “inutili” – quelle vere – e di resurrezione dei consumi, in un’Italia che non bisogna essere “faziosi” per vedere cadere nell’abisso della povertà. L’Italia non è la Grecia, e reggerà. Finanziariamente parlando. Ma quanto potrà resistere una Nazione abbandonata dalla politica, che se ne ricorda solo al momento dei «sacrifici» e della «coesione nazionale». E per questo l’Italia si che è come la Grecia, la Spagna, il Portogallo.
Una manovra da 47 miliardi di euro ieri, da 79 oggi, il 60% dei quali sarà ottenuto tramite nuove imposizioni fiscali – che, secondo Confindustria, porteranno ad un aumento della pressione fiscale dell’1%. E poi tagli: tagli alle pensioni medie e basse, alle scuole ed all’università, alle spese sanitarie ed ai finanziamenti alle imprese, alle amministrazioni locali, ai servizi. Reintrodotto il ticket sanitario di 10 euro su visite ed analisi, e di 25 euro sui codici bianchi in pronto soccorso, che insieme porteranno un risparmio di 381 milioni di euro. Tagli alle agevolazioni fiscali – che dovrebbero riguardare tutte le 483 agevolazioni – del 5% ne 2013 e del 20% a partire dal 2014, per un totale di 24 miliardi. Pensioni adeguate alle aspettative di vita elaborate dall’Istat, ed incremento progressivo dei requisiti di anzianità per pensioni di vecchiaia, prepensionamenti e assegni sociali, che raggiungerà nel 2050 i 3 anni e 10 mesi, oltre che slittamento per le pensioni con 40 anni di contributi di un mese nel 2012, di due nel 2013 e di tre nel 2014. E poi la rimodulazione dell’imposta di bollo, la dismissione di quote di partecipazione azionaria dello Stato, una fantomatica liberalizzazione delle professioni – rimandata ad un futuro incerto, nel pieno spirito dell’intera manovra – , ed aumento dell’imponibile delle stock options, modifiche del patto di stabilità con gli enti locali, aumenti delle aliquote sui carburanti. Incredibile – considerando il passato ed il presente, probabilmente il futuro del nostro ministro del Tesoro – la norma sull’incompatibilità dei giudici tributari nel caso in cui il coniuge, i conviventi, i parenti o gli affini del giudice siano iscritti ad albi professionali nello stesso ambito regionale, oppure nelle regioni o province confinanti con la regione in cui ha sede la Commissione tributaria provinciale o regionale del suddetto. Ma ecco il colpo di genio: il contributo di solidarietà!
Le dichiarazioni dei sindacati riguardo la manovra degli ultimi giorni ci immergono in un clima – come se non ci fossimo già entrati da tempo – da servizi igienici. «I tagli non finiscono mai», è questa l’espressione da rotoloni Regina che hanno usato alcuni esponenti della Cgil per definire il decreto, ed effettivamente il governo ha imparato bene l’equazione della «morbistenza» della carta igienica Tempo. Morbido con i privilegiati e forte con i deboli. In quest’ottica si inserisce proprio il gentile presente che la nostra giunta nazionale ha voluto concedere ai ceti medio-bassi, proprio il contributo di solidarietà, imposto alle cosiddette “pensioni d’oro”. Pensate, 5% di contributo oltre 90mila euro e fino ai 150mila, e addirittura 10% per gli importi superiori ai 150mila euro annui. Un’azione degna di Robin Hood, del più scaltro e temerario trockijsta. Sarà il primo passo della rivoluzione bolscevica tremontiana. Ma intanto i costi della politica rimangono invariati, i partiti di ogni rango e credo corrono a votare contro l’abolizione delle Province, il patrimonio secolare della Chiesa rimane uno spettro per le casse dello Stato, l’evasione fiscale combattuta col cucchiaino solo sul palcoscenico dell’opinione pubblica continua a crescere, le famiglie italiane continuano a credere di essere loro i famosi “risparmiatori”, le scuole private continuano a rosicchiare – sarebbe meglio dire a divorare – sia i soldi che le speranze di futuro del paese. E noi stiamo a guardare.
L’Economist di questa settimana dipinge un’Italia «on the edge», sull’orlo. L’immagine la vedete da voi.