In fondo, anche quella dell’uccisione di Mauro Rostagno è stata una storia semplice. Cosa Nostra uccise, nel lontano settembre 1988, a Trapani, un giornalista perché le faceva molta paura. Molti erano al corrente che questa sarebbe stata la sua sorte e si adoperarono per facilitare il compito di Cosa Nostra, prima e dopo l’uccisione.
Tra questi, diversi esponenti dell’arma dei carabinieri; magistrati; uomini politici, leader dell’opinione pubblica. Ora che, a distanza di 23 anni, si celebra finalmente un processo contro mandanti ed esecutori, alcune delle circostanze vengono fuori e confermano quanto, in Sicilia, la dissimulazione sia sempre stata un’abitudine; la menzogna ben accetta; la connivenza con la mafia ben più vasta e profonda di quanto sia logico immaginarsi. Per il lettore del manifesto, che è sicuramente già molto informato, riassumo qui alcuni passaggi simbolo della vicenda.
SUBITO PRIMA DEL DELITTO
Nel 1988 Mauro Rostagno, una delle icone del ’68, gestisce alle porte di Trapani una comunità per il recupero di tossicodipendenti e alcolisti. A questa attività associa quella di giornalista televisivo, con trasmissioni in cui cui si parla di mafia e corruzione politica, come mai è stato fatto in Sicilia (e non sarà mai fatto dopo): nomi e cognomi, filmati, inchieste vanno in onda ogni giorno dell’emittente locale RTC con ascolti altissimi. All’inizio dell’anno Rostagno è andato dai carabinieri di Trapani a denunciare quanto ha appreso su Licio Gelli e una potentissima loggia massonica in cui convivono i capimafia, i politici e le istituzioni della città e ha ottenuto che la sua denuncia fosse trasmessa in Procura. E’ andato a Palermo a parlare di altre sue scoperte (traffico d’armi all’aeroporto di Kinisia) con il giudice Giovanni Falcone, e a Roma alla direzione del Pci.
Nel luglio 1988, Leonardo Marino, il “pentito” che i carabinieri del colonnello Umberto Bonaventura istruiscono da settimane, dichiara che Mauro Rostagno, insieme ad altri, era al corrente del delitto Calabresi avvenuto nel 1972 ad opera di Lotta Continua. L’attività antimafia di Rostagno viene così resa pubblica, la sua immagine pubblica pesantemente colpita. In tutto il lunghissimo processo Calabresi si scoprirà che, da parte degli inquirenti, non ci fu mai nulla che giustificasse quell’avviso di garanzia. Rostagno chiede inutilmente di essere interrogato. Il 26 settembre 1988 viene ucciso.
IL DELITTO
E’ un agguato in una strada di campagna. L’illuminazione pubblica è stata tagliata. L’automobile usata è stata rubata mesi prima a Palermo e subito dopo viene trovata bruciata. Per la polizia, guidata dal vicequestore Rino Germanà capo della Squadra mobile, ovviamente si tratta di un delitto di mafia. Movente: far tacere Rostagno. Per i carabinieri di Trapani, invece, la mafia non c’entra per nulla. Rostagno è rimasto vittima di spacciatori di droga, oppure di una faccenda di corna. Per la magistratura di Trapani, in città la mafia non esiste (e dire che tre anni prima a venti chilometri di distanza è stata scoperta la raffineria d’eroina più grande d’Europa). All’obitorio, i carabinieri diffondono la voce che nella macchina di Rostagno c’erano rotoli di dollari e siringhe per eroina.
A TRAPANI, SUBITO DOPO
Il capitano dei carabinieri Elio Dell’Anna del Reparto Operativo invia alla procura trapanese un rapporto riservato in cui afferma che il giudice istruttore Lombardi (inchiesta per il delitto Calabresi) gli ha comunicato, a Milano, che «il Rostagno era al corrente di tutte le motivazioni, compresi esecutori e mandanti, concernenti l’omicidio Calabresi; il Rostagno aveva rotto i ponti con i suoi ex compagni di lotta e forse aveva intenzione di dire la verità».
La sua informativa verrà riscontrata come falsa.
A MILANO, CINQUE ANNI DOPO
Nel novembre del 1993 al processo d’appello per l’omicidio Calabresi (dove Sofri. Bompressi e Pietrostefani verranno assolti), l’avvocato di parte civile Luigi Ligotti dichiara: «… Mauro Rostagno non è morto per lupara … è stato fatto tacere dai suoi compagni di un tempo, loro sì mafiosi». (Luigi Li Gotti diventerà poi senatore per l’Italia dei Valori e sottosegretario alla Giustizia nel secondo governo Prodi).
A TRAPANI, OTTO ANNI DOPO
Il procuratore capo Gianfranco Garofalo convoca, gioioso e spavaldo, una conferenza stampa per annunciare la risoluzione del «caso Rostagno». L’ha fatto uccidere la sua compagna Chicca Roveri, che viene arrestata come mandante, per questioni adulterio, gelosie e traffici di droga. «Cosa Nostra non doveva essere gratuitamente incolpata» afferma solennemente. La sua inchiesta crolla miseramente in due settimane, ma questo non impedisce la pubblicazione di un libro di un certo successo: «Rostagno, un delitto in famiglia», edizioni Mondadori.
Se l’iniziativa del procuratore fosse ispirata alla malafede, o semplicemente frutto della sua vanità, o della sua insipienza, ancora oggi non è dato sapere.
A PALERMO, DICIANNOVE ANNI DOPO
Il pubblico ministero Antonio Ingroia chiede il rinvio a giudizio di Vincenzo Virga, capo mafia di Trapani come mandante dell’omicidio; e di Vito Mazzara, suo killer di fiducia, come esecutore. L’accusa presenta una inequivocabile perizia balistica; rivela il movente attraverso le dichiarazioni dei maggiori esponenti di Cosa nostra (Brusca,Siino, Sinacori); rivela che l’uomo che tagliò la luce quella sera, tale Vincenzo Mastrantonio operaio Enel e autista di Virga, venne ucciso nel 1989 «perché sapeva troppo». Mostra che le armi in dotazione a Mazzara hanno ucciso altre persone, oltre a Rostagno.
Ricorda che il filone giusto fu quello della polizia di Stato, che subito indicò la pista mafiosa e che Rino Germanà fu oggetto di un attentato nel 1992, dal quale si salvò con coraggio rispondendo al fuoco. Per quanto riguarda Vincenzo Virga, egli è un ex contadino diventato imprenditore, monopolista del cemento trapanese, proprietario della più grande gioielleria della città. Sodale di Marcello Dell’Utri, per cui agisce come «recupero crediti»; fondatore del primo club di Forza Italia, latitante dal 1994, in carcere dal 2001.
All’udienza di ieri sono stati ascoltati l’allora capo del reparto operativo dei Carabinieri di Trapani, oggi generale, Nazareno Montanti e l’allora brigadiere dei CC, oggi responsabile degli stessi a Buseto Palizzolo (Tp), Beniamino Cannas.
Non si ricordavano quasi nulla, nemmeno le cose che si ricordano tutti.
Anche per loro era stata una storia piuttosto semplice. Routine.