MERITI TOPONOMASTICI ALLE MERETRICI SICILIANE II

di Claudia Fucarino

 

Nel Medioevo la condizione della donna e della prostituta peggiora notevolmente. Costrette ad abitare in capanne fuori le mura della città, lontano dalla gente onesta, subivano spesso violenze da parte degli uomini disonesti che, approfittando della loro poca apprezzabile condizione sociale, riuscivano anche a farla franca.

Un ignobile trattamento, purtroppo, riservato non solo alle meretrici. Per soddisfare le proprie libidini, i voluttuosi prepotenti solevano anche rapire le monache dai chiostri e le mogli dalle case coniugali. Un problema talmente comune che il Normanno re Ruggero fu costretto a sancire nuove leggi a difesa delle donne. Il “Raptu et violentia Monialibus illata”[1], ad esempio, puniva con la pena di morte i violenti rapitori. Anche l’adultera che, a seguito della malefatta veniva in passato aspramente punita, adesso con i Normanni è parzialmente risollevata dal triste destino cui era destinata. L’esclusivo potere decisionale sulle sorti della fedifraga spettava adesso all’offeso marito, che autorizzato a tagliarle il naso e a seviziarla sino ad arrecarle la morte, poteva comunque decidere di graziarla, naturalmente dopo averla flagellata pubblicamente come redenzione ad un eventuale perdono.

Grazie al grande Federico II, monarca giusto e liberale, la situazione femminile farà un ulteriore e importante passo avanti. Sarà, infatti, concessa alle meretrici l’autodifesa in Tribunale. Le donne potranno adesso difendersi, avvalorare la loro innocenza e accusare il proprio carnefice dimostrando l’abuso sessuale e la prepotenza dal malcapitato.

Benché le donne, meretrici, suore o coniugate, siano adesso parzialmente tutelate, ad averne la peggio rimangono invece altre donne, le schiave, la cui tratta costituisce una delle più gravi offese subite, sino al XVII secolo, dal genere femminile. Prostituire una schiava, permetteva alla donna di acquisire, con il tempo, il diritto alla libertà. Se, infatti, si vendeva una schiava con la condicio ne prostituatur[2] e il nuovo padrone contravveniva alla condizione, permetteva alla donna di ritornare  ipso iure libera[3].

 

I secoli successivi sono marcati da profonde contraddizioni e da un insostenibile decadimento morale e culturale. A Palermo i numerosi signori, che popolavano gli altrettanto pomposi e ricchi palazzi, se la spassavano allegramente alle spalle della povera gente, morta di fame. La classe borghese non era presa in considerazione e le classi operaie, considerate vili, non avevano alcun privilegio. Così se da un lato le donne del XIII XVI secolo, decantate dai più grandi viaggiatori e scrittori del tempo, appaiono donne vanitose, vestite con abiti pomposi e decorate da gioielli ricchi di smeraldi, rubini e filigrane d’oro e d’argento, dall’altro aumentano le meretrici che, a causa della soffocante fame, sono costrette a prostituirsi per un tozzo di pane. “In Palermo e in Sicilia, erano ed ancor sono assai femine dal corpo bellissimo, ma nemiche della onestà, le quali per chi non le conosce, sarebbero e son tenute grandi e onestissima donne”[4].,

Intanto a causa dell’aumento a dismisura di prostitute e della dileguante sifilide[5], che mieteva centinaia di vittime, il Senato decise di sistemare le meretrici in un luogo segregato dalla gente onesta e separato dal centro città: nel famoso quartiere di Sant’Andrea sino all’attigua Piazza San Domenico.

Ma non tutte le meretrici erano costrette a vivere in miseria e in luoghi segregati dal centro città. In Sicilia vi erano, infatti, diverse tipologie di donna-meretrice: le donne innamorate, cioè le mantenute che vivevano continue tresche d’amore. Le cortigiane, cioè le meretrici di alto bordo che solevano ricevere in casa nobili e gente danarosa. Le donne di partito che abitavano nei postriboli e le donne di cantonera che erano invece solite aggirarsi per le vie. Naturalmente la più riconosciuta era la cortigiana. Essa vestiva con sfarzo e conduceva una vita ricca di fasti. Sebbene la cortigiana siciliana aveva la possibilità di dedicarsi all’educazione, alla raffinatezza dei modi e al gusto artistico, erano tuttavia oggetto di critica da parte dei viaggiatori. Erano spesso molto rozze e volgari, non conoscevano le arti e non erano neanche in grado di suonare strumenti musicali se non strimpellare qualche nota del mandolino accompagnato da un canzonetta in siciliano o spagnolo.

Nondimeno sono numerose le donne cortigiane passate alla storia e famose per le loro raffinate e sofisticate arti seduttorie: Isabella d’Este Gonzaga, Giulia Gonzaga Colonna, Ippolita Sforza Bentivoglio oltre alla già nota Baronessa Eufrosina del Miserendino, amante del viceré Marcantonio Colonna.

La corruzione cominciava tuttavia dall’alto, cioè dai nobili che conducevano una vita scandalosa, come il già citato viceré Marcantonio Colonna. Egli, considerato un uomo forte e un eroe di Guerra[6], è tuttavia un uomo debole e appassionato del gentil sesso che, pur di avvicinarsi indisturbato alle belle donne per intrattenerle con piacevoli facezie e lusingarle con imbarazzanti complimenti, giunge ad attuare ingegnosi travestimenti così da essere totalmente irriconoscibile. Sarà lui stesso ad organizzare le pubbliche corse sul Cassaro, come la famosa corsa delle ragazze, in cui donne succinte con le gambe nude i seni scoperti e i capelli al vento correvano tra la folla brulicante del Cassaro, solo per ottenere in dono “la faldetta con lo imbusto di raso carmisino”, assegnata come primo premio dal Viceré.

Tuttavia il numero eccessivo di meretrici in città cominciava realmente a costituire un problema, soprattutto in una città moralista e apparentemente integralista come Palermo al tempo dei viceré spagnoli. Furono pertanto adottate una serie di normative che non solo costringevano le donne a vivere appartate dalle persone “oneste” ma le obbligavano, pena la frusta, a uscir di casa senza velo in testa -com’era costume delle donne – per apparire più riconoscibile e non mischiersi così con le altre donne “oneste”.

A causa di quest’ultima restrizione le poverette cominciarono a non uscire più di casa neanche per recarsi in chiesa, poiché erano tanto riconoscibili, rispetto alle altre donne, da essere continui oggetti di scherno e di molestia.

Fu costretto pertanto ad intervenire il viceré De Vega che non solo permise alle donne di poter uscire da casa per recarsi alle funzioni religiose indossando il manto, ma decise di destinare gli introiti delle offerte del “Corpus Domini”, che ogni anno venivano devolute in favore dei poveri, alle ree pentite all’interno del monastero della via Divisi.

La prostituzione a Palermo fu, in questi secoli, un problema sociale ricorrente e molto sentito. Nacque, soprattutto tra i nobili possidenti di palazzi, il desiderio sempre più frequente di destinare i loro immobili a particolari monasteri dove accogliere povere meretrici bisognose di redenzione o giovani e belle donne non maritate che, a causa della povera condizione economica in cui versavano, erano spesso soggette a prostituirsi per mantenersi.

Inoltre, al fine di permettere alle meretrici di uscir da casa indossando, alla stregua delle nobildonne, manti lussuosi, ricamati in seta con fili d’oro e d’argento, fu istituita una gabella  definita della Bacchetta, che obbligava le donne a versare 4 once nelle casse del Senato. L’introito di tale tassa era devoluto al monastero delle Ree pentite per il sostentamento delle colleghe ravvedute.

Con Marcantonio Colonna fu inoltre istituito l’obbligo di eseguire una volta al mese un controllo fiscale sulla salute, a causa delle diffuse malattie veneree che si andavano propagando. Coloro che al controllo risultavano malate, venivano sfrattate dalle abitazioni e allontanate dal centro abitato. Anche gli uomini sorpresi con meretrici venivano puniti: con una semplice contravvenzione, se si trattava di nobili, con la galera, se in flagrante venivano sorpresi uomini del popolo.




[1]  Lo stupro e la violenza inflitta Monache

[2] Non prostituite

[3] Libera secondo la legge stessa

[4]  Boccaccio, Decamerone, Giornata Ottava, novella X. Boccaccio, fine conoscitore delle bellezze muliebri, è in dubbio se sia stato realmente a Palermo.

[5] La malattia venerea giunse in Italia nel 1494, dopo l’assedio di Napoli ad opera del francese Carlo VIII e delle sue truppe, che viaggiavano con una schiera di prostitute al seguito. Pertanto fu identificata come mal francese. Il clero intravide in questa malattia la maledizione di Dio verso gli uomini immorali nella condotta e licenziosi nei costumi.

[6] Considerato l’eroe e stratega della vittoria contro i turchi nella battaglia di Lepanto, il 7 ottobre 1571.