Messina, citta’ Far West e non babba

Emanuele Crescenti, magistrato alla Procura di Palmi, alla domanda su cosa abbia significato accendere i riflettori su Messina, una realtà ai margini nella lotta alla criminalità organizzata, risponde con una lectio magistralis sulla mafia nella “città babba” che lascia pochi dubbi sulla sua competenza in merito:

«Ha significato fare luce su Barcellona Pozzo di Gotto, sui Nebrodi, sulle zone a più alta densità criminale della provincia e del distretto della nostra Corte d’Appello. Negli anni Ottanta, per fare un esempio, a Barcellona si andava a un ritmo di un omicidio al giorno, con delle vicende davvero efferate. Su Barcellona si era scatenata la più feroce guerra di mafia che la nostra provincia ricordi: la rivoluzione dei nuovi arrivati, guidati da Pino Chiofalo, contro la “vecchia” mafia collegata a Cosa nostra e alle realtà criminali più consolidate. Lì c’erano in ballo i soldi per la costruzione del raddoppio ferroviario, una gran massa di denaro. Ricordo un episodio in cui la banda di Chiofalo partì per andare a dare una lezione a chi non voleva pagare il pizzo, ammazzò chi doveva ammazzare, ma poi presa dall’onda dell’entusiasmo continuò e fece altri due omicidi non premeditati nell’arco di quel pomeriggio. Questo per dimostrare quanto si sparava, come e più del Far West di Hollywoodiana memoria».

Accadeva a Barcellona, paese oggi riconosciuto anche dal grande pubblico come sede del clan più pericoloso della provincia. Ma nel messinese non era l’unico focolare di mafia, come ricorda Crescenti.

«Sui Nebrodi si era nella fase antecedente alla realtà del fenomeno antiracket. Realtà che nei primi anni Novanta nasceva a Capo d’Orlando, con i commercianti, guidati da Tano Grasso, che reagiscono e denunciano. Comincia il grande processo al racket dei Nebrodi, un processo con risonanza al livello nazionale e internazionale perché per la prima volta le vittime si ribellano ai delitti efferati della criminalità».

È così che nasce il processo dell’inizio degli anni Novanta a Patti, che porta alla luce le vicende dei “Tortoriciani” e i contatti di questo clan con la mafia palermitana e catanese.

«È stato un lavoro che dal punto di vista giudiziario ha  scontato l’inesperienza della magistratura di fronte al fenomeno del pentitismo» ragiona Crescenti. La magistratura, fino ai primi anni Novanta, aveva sempre lavorato in una penuria di informazioni, dettata dall’omertà e da un sistema che si basava sulle prove che si riusciva a raccogliere. Con l’avvento del pentitismo, racconta Emanuele Crescenti, i magistrati «quasi si ubriacarono di troppe prove». Questo in un distretto in cui, ricorda, «abbiamo avuto il più alto numero di collaboratori di giustizia».

Nel racconto di Emanuele Crescenti Messina è tutt’altro che la “città babba”, quella che a differenza di Palermo e Catania è incapace di dar vita a una mafia tutta sua. «Da messinese nato a Messina e da magistrato che ha lavorato anche sui Nebrodi e che ha avuto a che fare con l’inchiesta Mare nostrum (sulla mafia barcellonese, ndr), posso dire che la mafia messinese rispecchia un po’ la città. È una mafia colonizzata dalla criminalità calabrese. È una mafia che mette le mani nella realtà più grossa messinese, cioè l’università – che viene definita la Fiat di Messina perché dà lavoro a molte persone – e risente del fatto che Messina sia una città dove c’è una realtà economica molto meno importante di Catania e Palermo e soprattutto una città di transito, avulsa e per questo utile per nascondere il marcio».