Mettete canzoni nei vostri forconi

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Corri forte ragazzo, corri

la gente dice sei stato tu

ombre bianche, vecchi poteri

il mondo compran senza pudore

vecchie immagini, santi stupidi

tutto lascian cosi com’è

guarda avanti non ci pensare

la storia viaggia insieme a te

(Area, L’elefante bianco)

 

L’intro musicale è voluto, nonché adatto al fenomeno che cercheremo di analizzare in queste righe: il movimento dei forconi e la ribellione in atto in queste ore in Sicilia, e presto (forse) anche nel resto d’Italia. Dove può portare un movimento semi-spontaneo che ha come simbolo un forcone, simbolo che tutto rappresenta fuorché un possibile incontro diplomatico? E, specialmente, è quello di cui la povera gente, disperata quanto si vuole, ha bisogno in questo momento storico?

Andiamo con ordine, e proviamo a capire con raziocinio i possibili scenari di una rivoluzione senza capi né obiettivi dichiarati: praticamente tutto porta in un solo posto, il caos. Caos che non significa anarchia, caos che significa repressione, nella migliore delle ipotesi.

Successe così in Cile, nell’Ottobre 1972: dopo uno sciopero di ventiquattr’ore di molte categorie, da camionisti a imprenditori, passando per gli studenti, arrivò la decisione di mettere il generale Carlos Prats come ministro dell’interno. Undici, travagliati mesi dopo arrivò il colpo di stato militare che portò al potere Augusto Pinochet.

Lo scenario italiano è diverso ma ricalca alcune scene di quegli anni ’70 sudamericani; è evidente nelle città semi deserte, dove i supermercati sono stati svuotati al secondo giorno di presidio e di benzina non c’è più neanche il più flebile odore, se non per un (possibile) mercato nero con prezzi notevolmente lievitati.

Succede che quindi -come insegnava Giambattista Vico- i corsi e ricorsi storici sono realtà. Non tutto viene ripercorso nella medesima maniera, ma la traiettoria sembra segnata. Una traiettoria pericolosa, che porta come detto a un possibile scenario del tutto caotico, temuta da chi ha memoria di quell’11 Settembre 1973, di chi sa cosa può voler dire tutto questo. Una rivoluzione portata avanti senza l’idea di cosa effettivamente sia non solo è fine a sé stessa, ma è anche autodistruttiva. Un’idea grande necessita una grande preparazione e -sopratutto- necessita di grandi uomini, lucidi, che la supportino. Qui il caso è ben diverso: non si mette in dubbio la caratura morale di chi, disperato, cerca in qualsiasi modo di farsi sentire. Si mette in discussione la sua lucidità, e il fatto che forse c’è qualcuno che subdolamente tira le fila di questo tremendo gioco. (http://ilcarrettinodelleidee.com/notizie/lici-e-ombre-del-movimento-dei-forconi.html)

 

Corri forte ragazzo, corri

la gente dice sei stato tu

prendi tutto non ti fermare

il fuoco brucia la tua virtù

alza il pugno senza tremare

guarda in viso la tua realtà

guarda avanti non ci pensare

la storia viaggia insieme a te

Impara a leggere le cose intorno a te

finché non se ne scoprirà

la realtà districar le regole che .

non ci funzionano più per spezzar

poi tutto ciò con radicalità

(Area, L’elefante bianco)

 

Succede che quindi il gioco è pericoloso, e ignorando le conseguenze si corrono grandi rischi. E l’unico modo per capirne le conseguenze è attraverso l’unica, vera rivoluzione di cui il Bel paese ha bisogno, da Udine a Caltanissetta, da Brindisi ad Aosta: una profonda e radicale rivoluzione culturale; attenzione, rivoluzione non significa buttare via tutto ciò che c’era prima, in questo caso. Possiamo chiamarla rieducazione al pensiero, possiamo chiamarla richiesta di una nuova centralità dell’uomo, della sua mente e della sua storia in questo periodo non molto favorevole. La si può chiamare in più modi, ma resta l’idea che debba essere percorsa questa strada.

I versi sopra sono di Demetrio Stratos, eclettico ed eccentrico cantante degli Area, uno dei maggiori gruppi prog italiani degli anni ’70. Parlano di tutti, ma non parlano di nessuno. È il 1975 quando L’elefante bianco viene pubblicata, insieme all’album crac!. Nello stesso album c’è un altro brano importante, chiamato Gioia e rivoluzione (guarda caso); un brano che andrebbe insegnato nelle scuole, durante l’ora di filosofia: “Canto per te che mi vieni a sentire / suono per te che non mi vuoi capire / rido per te che non sai sognare / suono per te che non mi vuoi capire / Nei tuoi occhi c’è una luce / che riscalda la mia mente / con il suono delle dita / si combatte una battaglia / che ci porta sulle strade / della gente che sa amare / che ci porta sulle strade / della gente che sa amare / Il mio mitra è il contrabbasso / che ti spara sulla faccia / che ti spara sulla faccia / ciò che penso della vita / con il suono delle dita / si combatte una battaglia / che ci porta sulle strade / della gente che sa amare“. L’utopistico impegno politico di Stratos & co è racchiuso in particolar modo in questi brani, nei famigerati anni ’70, prima che prenda piede il punk ’77, prima che altre rivoluzioni e altri moti di strada accadano ovunque. Ciò che diceva Stratos, e che rilanciamo noi nel nostro piccolo in queste ore, è un messaggio tanto semplice quanto efficace: la rivoluzione non è un mezzo, ma un fine. E non sta scritto da nessuna parte che debba essere così caotica.

La rivoluzione culturale auspicata sopra porterebbe degli effetti sconvolgenti in un Paese che ha perso l’abitudine di pensare, dove tutti aspettano costantemente il parere dell’opinion leader di turno, ché farsi un’idea propria a volte sembra essere davvero complicato e laborioso; un Paese dove c’è il problema oramai atavico del privato reso pubblico, dove si perde per forza di cose la lucidità di analisi, a causa dell’errato concetto del “tutto e subito”. C’è un omicidio? Vogliamo subito il colpevole in prigione. E che soffra. In barba ai principi costituzionali, in barba alla presunzione di innocenza.

È un problema atavico, tipicamente italiano (ma non solo, va detto): siamo un Paese di esperti di tutto, a seconda di cosa vada per la maggiore in TV. Sappiamo cos’è lo spread oggi, come ieri sapevamo tutto dell’omicidio di Cogne, o di cosa successe nella mente di Breivik. Siamo esperti di tutto, ma non sappiamo -forse- realmente niente.

Non sappiamo niente, perché se davvero sapessimo qualcosa ci fermeremmo un attimo, davanti ai forconi e alla violenza gratuita. Ci fermeremmo a riflettere e a pensare se è davvero normale ciò che sta succedendo (e che nessuno prenda in considerazione il paragone con la rivoluzione francese: altro contesto storico, altro contesto sociale. Non scherziamo), ci chiederemmo se bloccare attività lavorative per una protesta giusta, per carità, giustissima, sia una mossa saggia. Senza rispondere subito con un pronto “certo!”, ma analizzandone la nascita con un attimo di calma e lucidità.

E dire che c’è chi ci dà gli esempi per capire come una cosa in apparenza giusta possa avere dei risvolti più che negativi… Basta prendere in considerazione una scena de I cento passi. Ma non le solite, quelle bellissime e conosciute dai più, bensì una spesso sottovalutata, ma che inquadra bene una situazione fortunatamente meno comune al giorno d’oggi, ma sempre attuale: il dialogo tra don Cesare Manzella e Stefano Venuti, durante il comizio in piazza di quest’ultimo nei primi minuti della pellicola.

 

“E magari puoi pensare che costruire una strada, un ospedale, un aeroporto sia una bella cosa, una cosa che conviene a tutti. Ma invece devi sapere che qui si costruisce solo per rubare. Si costruisce solo per mangiarci sopra […]”.

“È il progresso amico bello, che porta di posti lavoro, case, turismo… I siciliani cavernicoli devono restare?”

“E chi li ha avuti questi posti di lavoro? Gli amici tuoi mafiosi”

“Ma unni sunnu ‘sti mafiusi, chi sono? Sempre a dire mafia qua, mafia là, ma che cos’è questa mafia? Dov’è?”

La mafia, ma non solo quella, è ovunque. È anche tra i forconi. Una cosa apparentemente bella come un moto rivoluzionario spontaneo deve essere giudicata al netto di questi fatti; si deve capire che non c’è una sola lotta, che gli interessi di tutti non coincidono. Che mentre alcuni sono spinti dalla disperazione, altri hanno probabilmente le idee chiare su come sfruttare questi caldi giorni siciliani. E c’è solo ed esclusivamente un modo per evitare che tutto questo accada, che la fame e la rabbia di molti abbia il predominio sulla ragione e la coscienza: con la cultura. È un input che deve arrivare dall’alto, per un’operazione a larga scala. Deve partire dalla televisione, dalle scuole, dalle università, dal governo. Ma a scala ridotta si può fare anche nei piccoli centri: basta parlare, informarsi da fonti sicure. Scambiare idee e studiare. Partecipare agli eventi organizzati. Anche una canzone è cultura. Un libro, un film; anche un quadro: non ha parole scritte sopra, ma parla, parla e si dispera anche, in alcuni casi. La cultura è ciò che respiriamo, la cultura è il riappropriarsi delle proprie origini, conoscere la propria storia, cercare di migliorarla tramite le proprie conoscenze. Cultura è saper riconoscere i falsi profeti. La cultura siamo noi, solo che ancora non ce ne siamo resi conto; uomini al centro del mondo, che possono prendere decisioni, che possono rilanciare un nuovo umanesimo culturale anche in un periodo storico inflazionato dalle “macchine”. Perché, checché se ne dica, è meglio un’idea “normale” portata avanti da uomini capaci e retti rispetto a una grande idea proposta da uomini moralmente piccoli e gretti. E ora noi abbiamo bisogno di normalità, di normalizzarci il più possibile. Abbiamo bisogno di cultura, per evitare errori fatali.

 

Apri le mie labbra, aprile

dolcemente.

Aiuta il mio cuore.

Cometa cuci

la bocca ai profeti.

Cometa chiudi la bocca e

vattene via.

Lascia che sia io a trovare

la libertà

(Area, Cometa Rossa)

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