Minicu, il tratto di un paese miope

Mi piace parlare con gli studenti di giornalismo. Ho scoperto qualche anno fa che mi riusciva, che ero capace di incanalare l’attenzione su alcuni aspetti importanti, sul concetto di “verità sostanziale dei fatti”, sulla necessità dell’onestà intellettuale. Ai diciottenni come ai ragazzini di quarta, di quinta elementare. Così ho portato un gruppetto variegato, fra i 7 e i 9 anni, da un artista. Volevo che lo conoscessero, volevo che lui parlasse loro della sua vita, delle sue creazioni, che desse le giuste imbeccate per far venir fuori un pezzo intriso di storia e di bellezza.

“Domenico Di Mauro ha compiuto 100 anni, è sulla soglia dei 101, ne ha di cose da dire”, mi sono detto quando ho preso la decisione di fare una gitarella a casa sua. Abita ad Aci Sant’Antonio, che è il paese dove sono cresciuto: è sempre stato lì. Ho parlato più volte di lui, da piccolo ricordo che per strada mi veniva indicato. “Minicu ’u pitturi” mi dicevano. E lo vedevo invecchiare, sporco di colori nel suo studiolo vicino quella che per decenni è stata l’unica farmacia del paese. I baffoni, la birritta in testa calata su un lato più che sull’altro, a ricordare l’artista che è sempre stato. Ma dipingeva carretti, e un pittore non mi pareva. Crescevo, in paese, e non potevo dimenticarmi di lui. Faceva parte di Aci Sant’Antonio come gli altri personaggi caratteristici, quelli coi soprannomi che si tramandano da generazioni e che hanno un ruolo ben incastrato fra i meccanismi delle giornate piccole e sempre uguali di un paese senza pretese.

Minicu ’u pitturi.

Poi ho studiato, sono andato via, e non l’ho più visto. Ho incontrato le opere di moltissimi artisti, ho dato corsi di storia dell’arte che mi hanno impegnato per mesi e mesi, e poi sono stato in giro a vedere da vicino i colori e le forme, le ombre e le luci. Il MOMA, il Louvre. Quando ripassavo da Aci Sant’Antonio mi chiedevo se fosse ancora lì, e venivo a sapere che dipingeva ancora. E in mezzo a questo mi si raccontava delle sue opere a Parigi, a Londra. A Washington, pure. E di un museo del carretto siciliano, che si voleva aprire in suo onore. Eppure erano voci, niente di più.

Ha compiuto 100 anni lo scorso anno, e sono stato invitato a presentare una serata in suo onore. È stato divertente, è stato bello vederlo salire sul palco, con le sue gambe, col corpo esile arroccato su un bastone, a raccontare qualcosa di lui. Poi la serata si è accartocciata sulla politica, sulle idee e i meriti di un museo che alla fine non esiste.

E ho ripensato a lui. “Non ci ho mai parlato davvero”, mi sono detto, “posso portarci i ragazzi e scambiare due chiacchiere”. E siamo andati. Arriviamo a una casupola vecchiotta, col giardino siciliano all’ingresso e diversi piccoli edifici a comporla. Ci accoglie il figlio, ci porta in una stanzetta zeppa di quadri, con al centro un magnifico carretto siciliano. Il figlio parla molto, moltissimo del padre. Sembra irrefrenabile, come una valvola aperta. “Chissà perché”, mi chiedo. Dopo qualche minuto arriva il padre, lento e accompagnato dal bastone. Gli faccio cenno di sedersi, ma rimane in piedi. Ha un sorriso magnifico in volto, e mi chiama. “Prufissuri”, mi dice. Fa cenno che ci sente poco, così decido di fare io le domande che i ragazzi hanno preparato. Il figlio parla ancora, risponde lui per il padre, ma Minicu parla pure. I ragazzi fanno molte foto, rimangono colpiti dai quadri, dalle parti dei carretti appese ovunque, e i loro “Oh” si accavallano.

Confusione, c’è confusione.

Mi guardo intorno, poi sento una presa al braccio. Mi giro. Domenico Di Mauro mi stringe, mi chiama a sé. “La luce”, mi dice. “La luce è importante. Il suo viso è in parte in ombra e in parte illuminato. Questa parte piena di luce avrebbe questi colori”, e indica una donna su un pannello, vestita di drappi, che separa due eroi greci disegnando una diagonale al centro esatto. Poi mi richiama: “I ragazzi devono studiare. Devono osservare e devono capire”. C’è un leggero accento nelle sue parole, ma il suo italiano è perfetto, i suoi termini sono ricercati e magnificamente naturali. È meraviglioso parlargli. Sono colpito. Mi porta vicino una teca, mi mostra alcuni premi. Gli chiedo quanti sono. “Eh…”, mi risponde. Dentro la teca c’è un vecchio numero dell’Avanti, mi avvicino e leggo: ‘L’Italia in lutto, è morto Pertini. Ciao Sandro’. Mi giro a guardare lui. “Un grande uomo”, mi dice. “Ne ho conosciuti, io”. E mi parla del re di Svezia, Gustavo, che venne a trovarlo nello studio e volle tre opere. Poi mi racconta di Pasolini, di Quasimodo, di Fiume. Ricorda Carlo Levi, che gli disse “tu sei la luce che tocca i quadri”. Il figlio, che lo sente, mi porta dei tamburelli siciliani. Sulla pelle, all’interno ci sono delle firme. C’è la firma di Gustavo di Svezia, di Pasolini, di Quasimodo… e poi ci sono libri con lunghe dediche. Nel leggo una di Bettino Craxi. Mi racconta, Minicu, di quando soffiò un premio a Guttuso. A Renato Guttuso. E allora prendo a guardare i premi esposti, e mi accorgo che la maggior parte sono per i suoi cento anni, riconoscimenti alla carriera. Oppure premi locali, robe da Proloco.

C’è qualcosa che non va.

Mentre Di Mauro continua a parlarmi dell’importanza della luce e dei colori, della prospettiva, a me vengono in mente alcune opere di Giotto, di Seurat, di  Cezanne, dove trovo quello che lui mi dice. Osservo l’incredibile brillantezza dei suoi colori, i giochi di luce perfetti. Poi guardo le targhe, guardo alcuni articoli di giornali locali che lui ha incorniciato. Lui mi osserva e mi dice. “Ma i soldi non servono a niente se non si vive bene… E se non si studia come si può vivere bene?”. Sorride, mi pianta due giganteschi occhi chiari negli occhi. Sono occhi ricchissimi, è uno sguardo vivo e immenso.

Penso che se un dio c’è, allora ha scelto di farlo rimanere qui fin quando non ci si renda conto di cosa ha mandato su questo pezzo arido di terra, fin quando la sua gente non si renda conto della gigantesca ricchezza che si trova in mano. Ma poi considero che questo è uno dei paesi dell’Italia del Sud, che non riesce a dar valore al bello. Che coltiva l’ignoranza come fosse l’albero del pane. E allora è così e basta. Dico ai ragazzi, tornando a scuola, che non devono mai dimenticare di quest’incontro e di quest’uomo che ha discusso di bellezza con Pasolini, con Levi, con Quasimodo. Di quest’uomo che a 100 anni parla ancora delle meraviglie della luce.

Mi sento motto triste e impotente, e decido di scrivere, velocemente, questo pezzo.

Sebastiano Ambra