Sguardo severo e compostezza esemplare. Intorno a lei, un’aura che suscita timoroso rispetto unito a un rassicurante calore quasi materno. Lei è suor Rosa. Mamma Rosa, per i ragazzi della comunità maschile di seconda accoglienza per minori non accompagnati ‘Casa Noemi’, gestita dalle Suore del Divino Zelo di Faro superiore, Messina.
Una realtà nata il 16 luglio 2016, che in 5 mesi ha accolto 22 minori non accompagnati provenienti dal continente africano. Si parla di ragazzi dai 13 ai 17 anni, che al compimento del diciottesimo anno di età verranno trasferiti in uno SPRAR dove rimarranno per alcuni mesi per poi essere inseriti nel mondo del lavoro. Questa è la “parabola” di questi migranti minori non accompagnati. 22 ‘piccoli uomini’, come ama definirli suor Rosa, che le suore della comunità hanno accompagnato in un percorso tanto delicato quanto difficile. Una difficoltà vissuta da ambe le parti: da chi arriva senza nulla, ma carico di aspirazione, e da chi accoglie, con quella determinazione che si unisce spesso al timore di non farcela, di non essere in grado di supportare. E di sopportare.
Perché spesso si dimentica di portare alla luce quelle che sono le frustrazioni, le problematiche, il senso di impotenza proprio di chi accoglie, di chi protegge, di chi dedica la propria esistenza a quella degli altri. L’eterno conflitto vissuto da chi deve essere capace di svolgere un’attività che unisce la cura a un percorso di formazione che deve necessariamente fare i conti con l’educazione. Perché è di bambini che si parla. Bambini cresciuti troppo in fretta, in realtà radicalmente diverse da quelle che li accolgono e nelle quali devono imparare a vivere. Dietro tutto questo, persone che devono essere in grado di fare i conti anche con il rifiuto, con muri di paura e diffidenza.
Noi de ilcarrettinodelleidee.com, abbiamo intervistato suor Rosa, la mamma che dal settembre del 2016, coordina le attività del centro di accoglienza di Faro Superiore, che ad oggi ospita 16 minori non accompagnati.
Possiamo solo cercare di immaginare il viaggio che questi piccoli uomini devono compiere da un ipotetico Sudan, o dal Congo, dal Ghana, fino alla Libia. Come arrivano qui? E soprattutto cosa si aspettano? Tanti sogni, tante aspettative. Che idea di futuro ha un bambino che nei ricordi ha un passato da fuggitivo?
Le costrizioni che portano alle partenze possono essere di diversa natura: violenza, dittatura, guerra, povertà. Questi piccoli uomini compiono viaggi anche di anni per raggiungere le coste libiche, durante i quali sono costretti a lavorare per guadagnarsi i soldi che permettono loro di continuare. Compiono un vero e proprio esodo, e raggiungere la Libia non significa avercela fatta. E quando si imbarcano per venire in Italia arrivano carichi di sogni. Questo sogno non glielo dobbiamo togliere. Perché il sogno li aiuta a vivere.
In cosa consiste la vostra attività? Come descrivereste il programma di un centro di seconda accoglienza?
L’accoglienza che facciamo qui nella Casa Noemi, una comunità di seconda accoglienza, ha inizio nel momento in cui i ragazzi arrivano dopo essere stati identificati. Noi cerchiamo di farli crescere umanamente e di integrarli nel territorio. Provengono da una realtà diversa da quella italiana, quindi cerchiamo di educarli eliminando le pretese, qualora ce ne fossero. In modo che le loro abitudini entrino in rapporto sereno con le nostre.
La questione inerente le differenze di abitudini e modi di vita è estremamente delicata, soprattutto considerando il fatto che dovete prendervi cura di minori non accompagnati. Come vi rapportate alle diverse culture e religioni?
Ospitiamo musulmani e cristiani e la convivenza è assolutamente pacifica. Il rispetto reciproco è tangibile. Abbiamo messo a disposizione dei musulmani una stanza per pregare e i cristiani vanno a messa la domenica. Cerchiamo di stimolare l’integrazione con diversi mezzi.
In occasione delle festività natalizie abbiamo organizzato un evento dal titolo ‘IL CRISTIANESIMO E L’ISLAM PER UNA FRATELLANZA UNIVERSALE – La compassione e la misericordia nella Bibbia e nel Corano’. Una giornata all’insegna della pace e della fratellanza. Abbiamo organizzato questo incontro citando molto il Corano perché questi ragazzi hanno bisogno di capire che c’è un interesse verso il loro Credo. E’ stato un evento che ha dato molte motivazioni e i ragazzi sono intervenuti con molto interesse. Agiamo in questo modo: diamo strumenti di cultura, perché questa cultura di pace diventi integrazione nel nostro paese.
Per ciò che riguarda l’istruzione, i ragazzi vengono integrati nella scuola se hanno l’età per frequentarla. I più adulti frequentano la scuola serale per la terza media, perché per poterli inserire nel mondo del lavoro è necessario questo titolo. Si cerca di accompagnarli in un percorso che sia finalizzato specificatamente all’inserimento nel mondo del lavoro. un’educazione che proietti verso un futuro concreto, organizzata al fine di ottenere risultati tangibili.
Come è vissuto il distacco dalla famiglia?
Abbiamo potuto comprendere che la famiglia è solitamente consenziente alla partenza, perché può portare a un futuro migliore per il ragazzo. Contemporaneamente abbiamo capito che la partenza può significare anche una maggiore sicurezza economica per la famiglia. Questa intuizione deriva dal fatto che, per legge, dobbiamo dare ai ragazzi una paga giornaliera di 2,50€. Per scelta dei ragazzi, consegniamo la somma alla fine del mese, e ci siamo resi conto che la maggioranza di loro invia il denaro alla famiglia.
Il distacco dalla famiglia, la giovanissima età. Viaggi di anni vissuti nella paura, troppo spesso nella violenza. Come può un bambino recuperare quella serenità mentale tale da potergli garantire una vita normale? Su quali mezzi fate affidamento per sostenerli anche sotto il punto di vista psicologico?
Abbiamo a nostra disposizione una equipe psicopedagogica che affianca i ragazzi durante la loro permanenza. Psicologi, mediatori culturali, e per i casi più difficili, quando dai racconti si evidenziano pressioni o torture fisiche, provvediamo a intraprendere un percorso psicologico e, in uno o due casi è successo, anche psichiatrico. In questi casi ci avvaliamo del supporto di altre figure professionali che esulano dall’equipe. L’equipe per loro diviene una presenza familiare. Nel caso di traumi importanti è quindi spesso necessario l’intervento di figure specifiche esterne che possano garantire ai ragazzi la sicurezza dell’anonimato e della riservatezza.
Dentro rimane una sofferenza enorme, un peso troppo grande per le pene subite. Il percorso a volte porta a una certa armonia esteriore che riflette quella interiore. Ma è un percorso molto lento. Ma il cammino c’è , lo sforzo anche, da parte sia nostra che loro. E loro hanno bisogno di essere accolti nella loro sofferenza. Non possiamo mai condannarli, ma accoglierli, e man mano nel dialogo personale capire cosa c’è da fare e cosa deve evitarsi.
La cosa certa è che hanno subito soprusi. I loro corpi, il corpo di molti di loro mostra le testimonianze della propria sofferenza.
La vostra attività, o meglio vocazione, è ispirata dall’esperienza di Padre Annibale. Si può quasi parlare di eredità genetica.
Noi abbiamo uno stile che è ispirato da Padre Annibale. Quello stile che non giudica ma accoglie, e si preoccupa di questi ragazzi per farli crescere come uomini. Per farli sentire a loro agio. E il mezzo più importante che usiamo è quello del dialogo, quello dell’amore.
Quando si parla di educazione bisogna fare anche i conti con il rifiuto, soprattutto se chi si deve educare è un bambino cresciuto troppo in fretta. Ci saranno stati momenti in cui il vostro operato non è stato capito o accettato. E’ giusto in questi casi parlare di frustrazione?
E’ una meccanica che fa parte della logica umana. Non sempre quello che tu dai viene corrisposto o è capito. E’ difficile far capire a un profugo che noi doniamo qualcosa. Spesso la logica di chi arriva qui è dettata dalla convinzione di ‘dovere avere’. E la pretesa a volte può divenire insoddisfazione, ingratitudine. E il senso di frustrazione è comune. Ma non dobbiamo e non possiamo fermarci a questo. Anche se a volte le forze vengono meno. Ma ci fermeremmo a noi, al nostro malessere. E non possiamo permettercelo.
Siete testimoni di storie violente anche solo da ascoltare. Chi cura il curatore? Come riuscite ad affrontare la sofferenza e, in molti casi, il senso di impotenza?
Posso rispondere secondo quella che è la mia esperienza personale. A volte il dolore di questi ragazzi è così forte che sembra di portare il mondo addosso. Se non si fa attenzione si rischia di soccombere alla rabbia. Sono troppe le ingiustizie che questi ragazzi hanno subito.
Il senso di impotenza è una costante. Soprattutto nei riguardi degli aguzzini, verso i quali non possiamo fare nulla per far capire loro cosa fanno. La frustrazione e l’impotenza in noi deriva dal non poter far nulla, dall’incapacità di poter aiutare anche loro a non fare ancora del male. Dobbiamo semplicemente cercare di fare in modo che la sofferenza dei ragazzi diventi il nostro dolore. Diventando il nostro dolore, li aiutiamo a liberarsi della loro rabbia. IL DOLORE SI PORTA IN DUE.
Come agite nei confronti del territorio esterno? Che risposte ricevete?
Al momento c’è molta paura. Perché quando si dice ‘profugo’ si intende altro. Ma questi ragazzi non fanno male a nessuno. Durante i vari eventi organizzati nel periodo natalizio, durante le varie cene organizzate anche con la collaborazione di animatori, i ragazzi si sono comportati come se fossero da sempre abituati a tutto questo. Manifestando un’integrazione totale. Sono ragazzi come gli altri, che non fanno del male. Ma hanno bisogno di essere seguiti costantemente.
Stiamo cercando di sensibilizzare alcune famiglie locali. Ad esempio, c’è una famiglia che attualmente segue un ragazzo approfittando dell’amicizia che lo lega al loro figlio naturale. Spesso va quindi a pranzo da loro, gioca con il figlio. Stiamo lavorando anche con alcuni volontari maschi perché li portino a vivere e a conoscere nuove realtà. Da pedagogista so quanto sia importante per questi ragazzi essere accompagnati da una figura maschile che li faccia sentire tra simili. Il ragazzo si sente così uno di loro.
Nel caso della vostra comunità, quando si parla di territorio esterno ci si riferisce alla realtà di un piccolo paese. Quanto influisce tutto questo sul vostro operato e sull’integrazione dei ragazzi?
Non vedo molto interesse, ma lo dico con una certa difficoltà perché non abbiamo organizzato manifestazioni esterne che possano farci capire come il paese reagirebbe. Prima è necessario agire all’interno. Dobbiamo pacificare il gruppo prima di aprirci. In ogni caso ci stiamo piano piano aprendo all’esterno. Vengono persone e volontari. L’alfabetizzazione è attuata da persone del posto. Però non posso esprimermi pienamente proprio perché non abbiamo organizzato manifestazioni esterne.
I ragazzi la chiamano Mamma Rosa. Quando pronuncia questo appellativo lo sguardo si illumina inconsapevolmente.
Ho un’esperienza familiare molto felice alle spalle. A volte rivedo in me lo sguardo di mia madre quando stavo male, o quando combinavo qualcosa. Cerco di volere bene a tutti allo stesso modo, ma di posare al tempo stesso lo sguardo ai bisogni personali di ciascuno. Penso a quello che è il compito di una madre: voler bene a tutti e curare chi è maggiormente nel bisogno. E’ importante non concentrare eccessivamente le attenzioni sul singolo, perché poi inevitabilmente lo si danneggia e lo si pone in una situazione scomoda rispetto agli altri. Per la mia esperienza pregressa a contatto con le comunità africane, conosco bene le meccaniche sociali in cui vivono. Nella cultura africana chi è maggiormente soggetto ad attenzioni viene isolato e rischia del proprio. Questo è il motivo per cui, durante la mia esperienza in Africa, abbiamo dovuto sostituire le adozioni personalizzate con quelle familiari. Adottavamo intere famiglie perché prediligere qualcuno avrebbe causato molti problemi. Il senso di privilegio viene molto mal vissuto e mal interpretato. E’ per questo che dobbiamo adottare tutte le attenzioni possibili.
In queste piccole realtà si creano inevitabilmente rapporti familiari, costruiti con una pazienza e una forza che legano quasi visceralmente. Come vivete, voi, il distacco da questi piccoli uomini nel momento in cui compiono la maggiore età? E come lo vivono loro?
Loro lo vivono sotto due punti di vista diversi. Da un lato con grande gioia, perché compiendo 18 anni raggiungono l’autonomia. Dall’altro lato c’è chi vive il distacco in modo traumatico. Qualcuno è perfino scappato dallo SPRAR cui era stato destinato ed è tornato qui. Mi sono ritrovata a mezzanotte meno un quarto ad aprire la porta a questo ragazzo che da un paese del ragusano è tornato qui. E’ stato quindi con noi un paio di giorni fino a quando lo abbiamo convinto e riaccompagnato allo SPRAR.
Io lo vivo con quel distacco che una madre vive quando il figlio riceve la chiamata per il servizio militare senza accorgersi che il proprio ragazzo ha già compiuto 18 anni. Però lo vivo serenamente. Non con un attaccamento folle, ma con quella serenità dovuta dalla consapevolezza di aver formato un uomo, di averlo preparato alla vita. Non vivo mai il distacco con un senso di abbandono. Per me si tratta di una missione.
Le missioni possono anche fallire. Quando si può parlare di sconfitta?
Quando un ragazzo si chiude nel silenzio per me è una sconfitta. Penso che non riescano mai ad aprirsi totalmente per le loro esperienze pregresse. Però un’apertura la percepiamo.
Ad esempio, per la cultura musulmana la donna non ha valore. Ma io sono molto rispettata. Molti hanno difficoltà a guardarmi negli occhi, ed io avevo interpretato questo distacco come un rifiuto, ma poi mi sono dovuta ricredere. Mi hanno chiesto di non pretendere che mi guardino negli occhi perché, secondo la loro cultura, loro hanno l’obbligo di abbassare la testa quando parla l’autorità, in segno di sottomissione. Avevo sbagliato, interpretando male il loro non guardarmi in viso mentre parlavo. Adesso ho capito e loro sanno che io comprendo e accetto questa forma di rispetto. Ci si educa in due. E’ un vero cammino di crescita e integrazione. Molto lento e in continuo divenire. Si ha la sensazione di essere arrivati alla fine del percorso, per poi rendersi conto di essere appena a metà strada, perché ogni ragazzo ha le sue differenze e le sue reazioni.
Le istituzioni assolvono il loro compito o potrebbero fare di più? Quali sono le proposte di una persona che vive all’interno di queste realtà?
Posso parlare della mia esperienza, dalla quale ho potuto comprendere cosa in realtà manchi. Compito della prima accoglienza sarebbe una prima alfabetizzazione. Invece i ragazzi arrivano qui che non conoscono minimamente la lingua italiana. Questo è sicuramente un compito insoluto. Ciò che direi a livello generale alle istituzioni, ai nostri politici, in base a quella che è la mia personale esperienza, è che non possono esistere comunità di accoglienza di 100 o 200 persone. Perché nella prima accoglienza si gioca il futuro. Imparano i vizi. Quindi devono esserci comunità di prima accoglienza a misura umana. Noi possiamo lavorare con progetti personali perché assistiamo 15 o 20 ragazzi.
Avete pensato o è già in atto un programma di collaborazione tra più centri di seconda accoglienza?
Tra i miei progetti c’è quello di richiedere un tavolo pedagogico per incontrare gli altri responsabili dei diversi centri di accoglienza, per stabilire ritmi comuni, scambiare le reciproche esperienze e cercare di crescere insieme. Sto pensando di organizzare qualcosa per mettere in comunicazione anche i ragazzi, formare delle squadre, cercare di elaborare progetti di interscambio.
In base alla vostra esperienza, immaginate un futuro in cui questi ragazzi riescano a tornare a casa?
Lo faccio spesso questo discorso ai ragazzi più grandi. Molti di loro non vogliono tornare. Vogliono trovare un lavoro. Altri vogliono tornare a casa e hanno una prospettiva molto chiara: trovare un lavoro, guadagnare un po’ per poi aprire attività nel proprio paese per aiutare i propri compaesani. Al momento vogliono godersi la vita, ma hanno le idee molto chiare.
Al termine della ‘chiacchierata’, ringraziamo e usciamo dalla stanza con uno spirito diverso. Lei ci ringrazia. Stringiamo quella mano forte e delicata al tempo stesso. Una mano di mamma.
GS Trischitta