Nessun uomo e’ un’isola, ma un potenziale co-worker

Si chiama coworking ed è una valida risposta all’indifferenza sociale e politica, allo spreco e alla mancanza di coesione comunitaria. In tutto il mondo si contano più di 2000 spazi dedicati a questa innovativa forma di condivisione dove free lance, ricercatori, studiosi, disegnatori, traduttori, creativi, programmatori web, ingegneri informatici, giornalisti e blogger si aggregano unendo i propri saperi e conoscenze. Il fenomeno nato nel 2005 a San Francisco per opera di Bad Neuberg intende supportare il telelavoro, che in modo rivoluzionario ha permesso alle aziende di economizzare sulle infrastrutture e ha consentito al soggetto di lavorare da casa. Questa forma di indipendenza, tuttavia, ha portato con sé una serie di riflessioni sulle quali occorre soffermarsi: se è vero che l’individuo riesce ad operare serenamente circondato dai comfort della propria abitazione è anche vero che vivendo in solitudine tende ad isolarsi dal resto della società. Fino a poco tempo fa, gli studiosi consideravano il telelavoro una soluzione positiva per gli innumerevoli aspetti che essa comporta, per esempio la flessibilità degli orari gestiti autonomamente dal soggetto oppure la possibilità di usare meno l’auto contribuendo così ad inquinare di meno. Ma se i sociologi immaginavano il futuro all’interno della “home worker”, oggi occorre restituire una prerogativa alle piazze e ai luoghi di condivisione dove si coltivano le relazioni sociali attraverso il lavoro perché esso è prima di tutto socialità. L’alienazione generata dal telelavoro è stata sostituita con una soluzione lungimirante: il coworking, un movimento internazionale, che nella maggior parte dei casi riutilizza antiche strutture abbandonate rendendole multidisciplinari ed eclettiche. Accade quindi di girovagare all’interno di un edificio dove si può incontrare una sala prove per la compagnia di danza e una sartoria, mentre nell’altra ala ci potrebbe essere uno studio di registrazione e nel cortile un’officina meccanica o ancora una falegnameria. Ogni spazio dedicato al coworking ha una serie di peculiarità offerte dalla storia stessa delle strutture per questo ognuna si rivela unica e singolare per il fascino che la distingue. Spesso sono antichi teatri, vecchie manifatture, capannoni abbandonati, edifici storici lasciati all’incuria che ritornano a risplendere. A Palermo per esempio nel quartiere della Zisa si fa coworking nella sala cinematografica “Vittorio De Seta” oppure a Berlino interi quartieri degradati sono diventati mete ambite dai creativi di tutto il mondo. Nonostante il fenomeno sia nato in America sembra essere l’Europa a guidare questa tendenza, la Spagna infatti è leader nel settore e l’Italia non è da meno con ben 75 sedi sparse in 42 città. Durante la Conferenza Internazionale svoltasi a Parigi lo scorso anno è stato dimostrato che il coworking è in ascesa con un raddoppio annuale degli spazi ad esso dedicati. È formidabile constatare come sempre più persone rinunciano a lavorare da casa cercando nuovi spazi, consapevoli di poter trovare indipendenza, libertà, autonomia sapientemente coniugate con collaborazione, condivisione, confronto. La nostra generazione, pur derivando da una società industriale, conta un numero straordinario di “lavoratori della conoscenza” che con una scrivania e un pc riescono ovunque ad essere operativi. Ciò ha comportato una modifica non solo della concezione di lavoro (l’operaio non si reca più in fabbrica o l’impiegato non raggiunge più l’ufficio), ma è cambiato anche il luogo stesso dove svolgere il proprio mestiere. Questo ha portato con sé una meravigliosa fusione di saperi, un’alchimia di conoscenze, un’unione di arti e scienze che prevalgono sull’antica teoria manageriale che mirava a suddividere i lavoratori in base alle loro mansioni generando una scala gerarchica spesso ingiusta e mortificante per chi ricopriva l’ultimo gradino di una piramide che dava molto a pochi e poco a molti. Il coworking è il riflesso di una società giusta in cui nessuno prevale sull’altro, ma si riconosce in ciascun individuo un potenziale intellettivo e creativo indispensabile per il resto della comunità.