Troppo spesso quando si parla di Sud attraverso i media, i riflettori vengono accesi principalmente sulle storie di drammaticità o arretratezza che purtroppo caratterizzano le regioni baciate dal sole. Storie di mafia, di vendetta, di innocenti, di disoccupazione, di disperazione, dipingono un’immagine negativa e maledetta che tende a oscurare la bellezza della cultura millenaria, cuore della tradizione nazionale, e della gente che si impegna per il cambiamento e per vivere dignitosamente. A proposito di cultura, quella creata dalle menti umane illuminate, c’è un’arte che non conosce rivali e che raggiunge le corde intime delle persone anche a molti kilometri di distanza: la musica.
Anche in Calabria si suona, e si suona a tutto volume. Molti giovani calabresi seguono la passione della musica e formano le proprie band, tentando di farsi strada attraverso la scena live delle proprie città che, troppe volte, è povera o non lascia spazio a tutti. C’è chi invece durante la propria vita è emigrato dalla Calabria verso altri nidi e, ritrovandosi insieme a vecchi amici, ha deciso di creare un gruppo che “dal Nord parlasse di Sud” a tutte le latitudini. E’ il caso de Il parto delle nuvole pesanti, band di cinque elementi formatasi a Bologna ma calabrese nel sangue; il loro nome è, inoltre, legato ad un film che sicuramente gran parte dei calabresi (e non solo) avranno visto al cinema nel 2011: “Qualunquemente” di Antonio Albanese. Noi de Il carrettino delle Idee li abbiamo intervistati per parlarci del loro progetto musicale, della loro mission e anche di questa curiosa e fortunata collaborazione.
Come nasce il progetto Il parto delle nuvole pesanti? All’inizio della vostra carriera avevate già le idee chiare su quale strada intraprendere?
All’inizio eravamo tutto istinto, nessuna riflessione. Facevamo quello che ci passava per la testa
e ci venne da fare un trio punk. Ma ben presto capimmo che non era quella la nostra strada. Lo
capimmo in uno dei primi concerti che facemmo al Centro Sociale Montevergine di Palermo.
Avevamo preparato una scaletta di brani punk in inglese ma il pubblico, pezzo dopo pezzo, andava
via. Allora ci guardammo e iniziammo ad improvvisare brani della nostra tradizione musicale
calabrese suonati con piglio punk e con nostra sorpresa la gente rientrò tutta in sala e alla fine ci fu
un grande applauso! Fu cosi che capimmo la nostra vera vocazione.
Da pochi mesi è uscito il vostro nuovo album “Che aria tira”, seguito di “Magnagrecia” del 2010. Come definireste il vostro suono attuale alla luce delle sperimentazioni fatte e delle contaminazioni subite negli anni?
Lo definirei “elettronic world music” ma rimane sempre una base di batteria, basso e chitarra
elettrici. In questo senso rimane sempre un suono rock. “Che aria tira” ha sicuramente un suono
nuovo, anche rispetto al penultimo cd “Magnagrecia”, perché c’è molto lavoro di computer e
di post produzione. Ci sono tanti suoni digitali e suoni elettronici anche se non si tratta di sound
elettronico tradizionale ma di suonini e giochi elettronici con cui ci siamo divertiti a condire
strutture ed armonie.
Il brano “Onda Calabra” del 2011 ha fatto da colonna sonora al film “Qualunquemente” e ha ottenuto la nomination come migliore canzone al David di Donatello. Vi aspettavate questo successo?
Assolutamente no, nessuno se l’aspettava. Nemmeno Albanese e neanche la produzione della
Fandango. E’ stato una sorpresa per tutti. Pensa che Albanese mi ha detto che ha fatto fatica
a trovare un produttore…e poi men che meno avremmo potuto immaginare che la canzone
autonomamente avrebbe fatto un così clamoroso successo diventando un tormentone al punto
da farci un servizio al Tg1 con tanto di titoli di apertura come se avessimo vinto Sanremo o la
lotteria di capodanno…ma siamo rimasti sempre coi piedi a terra perché le luci si spengono e noi
rimaniamo…
Com’è nata la collaborazione fra Il parto e Antonio Albanese?
Con Antonio Albanese ci siamo conosciuti tanti anni fa nel lontano 2003 al Festival del Cinema e
del Cibo messo in piedi di Petrini di Slow Food a Bra in provincia di Cuneo. Noi eravamo lì per la
proiezione del nostro film documentario “Doichlanda”, un viaggio enogastronomico – musicale tra
i ristoranti e le pizzerie degli emigranti calabresi in Germania. Eravamo freschi del premio della
critica che ci aveva assegnato il Festival del Cinema di Torino, e Albanese era curioso di vedere
come il Parto parlava della Calabria…Rimase folgorato dall’ironia, dal surrealismo e gli piacque
molto il brano Onda calabra che chiudeva il film. A cena ci promettemmo di fare qualcosa insieme
per futuro e l’occasione venne con il suo film Qualunquemente.
Il gruppo ha fatto dell’impegno civile contro la mafia un suo tratto distintivo. Avete
partecipato a varie iniziative artistiche contro la mafia tra Calabria e Sicilia, e ora siete
coinvolti nel progetto “Terre di Musica” che si impegna a recuperare i beni confiscati alla
mafia. In che modo può, secondo voi, il rock (o la musica in generale) avvicinare la gente al tema della mafia e sensibilizzarla?
Non è una caso che il progetto “Terre di Musica“ stia registrando un grande interesse, perché
nella gente, nella società c’è voglia di capire e di fare, pensare e cambiare anche se ci vuole tempo
e bisogna avere molta pazienza. Penso anche che gli artisti dovrebbero scrivere di più canzoni
di mafia e non solo limitarsi a partecipare alle iniziative contro la mafia. La musica è un grande
veicolo di messaggi ed una canzone può avvicinare soprattutto i giovani che devono ancora scrivere
le loro pagine più belle…basta fare due esempi recenti: Fabrizio Moro con “Pensa”, portato a
Sanremo e i Modena City Ramblers con “Cento passi” hanno avvicinato al tema della mafia
tantissimi giovani.
Nei vostri lavori vi siete dimostrati attenti a temi sociali come la mafia, l’ambiente, il lavoro, il razzismo, i conflitti religiosi e perfino il futuro dei giovani. Le vostre canzoni sembrano nascere dalla voglia di raccontare riflessioni e osservazioni, in maniera anche sarcastica. Quando vi ritrovate in viaggio per tour, anche all’estero, vi chiedete spesso “Che aria tira?” nel nostro Paese?
Guarda che ce lo chiediamo anche al bagno…tanti nostri amici hanno scelto di andare a vivere
all’estero proprio perché ritengono che tiri una brutta aria in Italia. Io non condivido questa scelta
estrema ma la rispetto, è comprensibile. Però preferisco rimanere nel fango perché non mi sentirei
a posto se lasciassi perdere…D’altra parte credo che per cambiare le cose ci sia bisogno di persone
che con il loro esempio possano essere testimoni credibili agli occhi dei giovani e noi in qualche
modo con la nostra musica cerchiamo di esserlo. Ma lo facciamo per noi anzitutto per stare meglio
come persone. Credo che dentro ciascuno di noi ci sia un piccolo capitano a cui la coscienza gli
sussurra di non abbandonare la nave, di non lasciare il timone della sua vita. Circolano invece troppi
Schettini nel nostro paese…
Il contatto con la Calabria e i calabresi è uno degli elementi che rende i vostri testi sempre attuali. Quanto è importante per voi sentirsi appartenenti ad una cultura nell’era della globalizzazione?
Tantissimo! Però attenzione perché non siamo né nostalgici né miopi ma soltanto degli strateghi
sentimentali…Oggi viviamo un paradosso: da un lato impazza la globalizzazione e dall’altro c’è
una grande ricerca di identità delle persone, delle comunità, delle culture. Noi come funamboli
camminiamo sul filo di questa contraddizione: partiamo dalla nostra piccola realtà, dal locale, per
lanciare messaggi universali come faceva Verga al tempo del verismo. Ci vuole equilibrio…
Qualche anno fa Max Gazzè cantava: “Una musica può fare”. Cosa può e deve fare la musica per migliorare la nostra società e per comunicare messaggi importanti come quello della lotta alla mafia?
Be’ io sono un convinto assertore che la musica può fare. Se è vero che Verdi e Mozart fanno
produrre più latte ad una mucca perché non può essere che una canzone faccia produrre più anima,
sentimento, etica e coscienza, e faccia compiere un gesto o maturare un pensiero o un’idea che non
c’era prima o che era solo nell’aria? D’altra parte fa più una canzone che una tasca vuota, e poi non
ho mai visto una rivoluzione senza una canzone!
Non solo musica, ma anche documentari e film. “I colori dell’abbandono”, diretto da Taddei, nasce da un soggetto scritto da Salvatore e racconta le varie facce di Pentedattilo con le sue bellezze e i suoi problemi. Avete mai pensato di dilettarvi anche nell’arte cinematografica o suonare rimane al primo posto?
Noi partiamo da una visione dell’espressività artistica dell’uomo istintivamente olistica. Fare
musica, cinema, teatro è un modo naturale d’intendere l’arte come fenomeno unitario e quindi non
ci siamo realmente posti questo problema. Però personalmente devo dire che mi manca molto la
letteratura piuttosto che il cinema, e forse un giorno mi metterò a scrivere tante storie di viaggiatori
che suonano per le vie del modo.
Già mi girano nella testa…